“Monte Sacro dei Rumeni” per DeriveApprodi

Martedì il sito DeriveApprodi gestito dall'immenso Lanfranco Caminiti ha pubblicato un mio editoriale sul mio quartiere, dedicato a un gruppo di rumeni. Lo trovate anche qui.

MONTE SACRO DEI RUMENI

Abito sotto il Monte Sacro. Detto tutto insieme Montesacro lo potresti quasi scrivere minuscolo, come a dire un’area, un quartiere. Ma ogni luogo ha la sua radice, e a Montesacro c’è questo monte, che in realtà è una collinetta. Sta dietro casa mia, vedo la sua sommità dalla finestra della cucina.Sale da Ponte Nomentano, un antico ponte romano su cui fino a pochi anni fa passavano le macchine della nomentana strette strette. Sale ed era una pastura da pecore brulla fino agli anni ’30; poi l’edilizia ha spostato le greggi più fuori e sono cresciuti alberi belli e eleganti, cipressi e pini marittimi. Ma un po’ dimenticato, defilato come tante cose della città che i romani guardano senza vedere finché qualcuno non gli mette una delimitazione intorno. Come il Monte Sacro, appunto, valorizzato con tanto di monumento e cancellata nel 2005, bicentenario della visita a Roma di Simon Bolivar che proprio da qui, a Ferragosto del 1805, fece il suo famoso e furioso giuramento di liberazione del Sud America dall’oppressione spagnola.
Perché proprio qui?
Perché il monte ha una lunga storia, quella del più antico sciopero dell’epoca latina: nel 493 a.C. la plebe romana si asserragliò su questo colle per protesta contro i patrizi, rifiutando di lavorare perché sfruttati e senza diritti, senza voce in capitolo, senza niente da perdere. Il console Menenio Agrippa chiese al Senato di affidargli il compito di sedare la rivolta, e salì al monte a tenere un discorso restato famoso: quello delle braccia che si rifiutano di faticare per lo stomaco, che se ne sta beato a ricevere cibo senza fare altro che prendere e digerire; ma senza lo stomaco che trasforma il cibo in nutrimento, anche le braccia non possono vivere, conciona Menenio. Volemose bene, insomma, e quindi i plebei tutti a casa. A fare le braccia per lo stomaco, con una piccola vittoria: l’istituzione di due Tribuni della Plebe, rappresentanti al Senato con potere di solo veto.
Bolivar appassionato di questa storia ascende la collina e pronuncia il giuramento; due secoli dopo c’è il monumento e un’iscrizione che lo racconta e io mi chiedo se i gitanti rumeni che cantano ogni giorno di festa nel parco l’hanno letta, se la conoscono questa storia. Loro che tutte le domeniche fanno il picnic nel parco, in una zona pianeggiante dove ci sono panchine disposte a semicerchio sulle quali appoggiano da bere e da mangiare e poi iniziano a cantare, per ore. Canzoni brutte, a volte vecchie melodie italiane da Sanremo anni ’60 con testi riscritti. C’è una donna che canta con la voce più alta e stridula di tutti, è infaticabile, trascinatrice, rilancia sempre appena sente che il finale di un pezzo si spegne in un borbottio; allora parte con un pezzo nuovo e più allegro, batte le mani. Non l’ho mai vista ma ormai la riconosco. Furiosa ma forse felice, non può parlare con nessuno: canta e basta, stecca spesso, spinge troppo. E tutti dietro, per ore, alla fine sempre più bevuti, esausti e stonati, l’estate fino alle 7 la sera. Pensano di essere liberi di fare casino lì, in mezzo agli alberi dove passeggiano solo i cani, che nessuno li senta. Mi fanno tristezza e mi rompono le palle queste brutte canzoni stonate ma ho paura che qualche vicino invece si infastidisca e li faccia smettere. Che mandino i Carabinieri a dirgli di piantarla, a controllare i documenti, che li mandino via dal sacro monte della plebe, che la signora stia corrucciata e un po’ umiliata a pensare a un altro posto dove andare a cantare che non dia fastidio ai patrizi di Città Giardino.
E ipotizzare due tribuni rumeni con potere di veto legislativo al Senato sarebbe pura fantascienza.