«Into the white»: la guerra senza guerra | Intervista a Petter Næss al Nordic Film Fest di Roma

Si è concluso da poco il secondo Nordic Film Fest alla Casa del Cinema di Roma, organizzato in pool dalle ambasciate scandinave d’Italia: un’edizione ancora più fortunata e partecipata della precedente, con film di altissimo livello che hanno davvero donato emozioni autentiche e profonde ai fortunati che sono riusciti, dopo lunghissime code, a guadagnarsi un posto in platea. Finalmente pellicole lontane da personaggi che non assomigliano alla nostra vita, che non ci sanno dare sentimenti profondi e sguardi nuovi e diversi sul mondo.

into the white

Tra i più importanti lo splendido Road North di Mika Kaurismäki, che ha messo insieme due grandissimi attori per un road movie padre-figlio commovente e inedito, e l’intensissimo Mangiare dormire morire di Gabriela Pichler, vincitore del premio del pubblico della Settimana della Critica di Venezia 2012, dove la regista ottimamente prodotta da China Åhlander ha raccontato il mondo della marginalità dell’immigrazione e difficoltà di sopravvivenza nel mondo lavoro attraverso una storia orgogliosa e tenace, affidata ad attori non professionisti su cui spicca un’incredibile protagonista, Nermina Lukac, di cui sentiremo certamente ancora parlare.

Ma il film più centrale e importante del festival è stato sicuramente Into the white, del regista norvegese Petter Næss, accolto dal pubblico con evidente emozione e calore, sottolineati da un doppio applauso. Ci voleva una terza pellicola di questo livello per raccontare ancora nel modo più intelligente e obliquo possibile la Seconda Guerra Mondiale. Dopo La sottile linea rossa di Terrence Malick e il doppio film Flags of Our Fathers/Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood, ecco un altro lavoro che ci restituisce la guerra in tutto il suo umano orrore, in tutta la sua stupidità. Un film che racconta gli uomini, la loro mascolinità potente e quella fragile, che li descrive in ogni sfaccettatura.

Tre aviatori della Luftwaffe cadono dopo un’azione atterrando nel mezzo del nulla nevoso, e al cominciare di una tempesta di neve trovano rifugio in un capanno di caccia. Dopo poco, vengono raggiunti da altri due aviatori di parte avversa, britannici della Royal Air Force, con cui sono costretti a dividere il rifugio, secondo i codici di guerra. Prigionieri gli inglesi, in un balletto di tentativi di riconquista del terreno perduto, tutto si muove lungo un doppio binario dove il regista norvegese Petter Næss (candidato al premio Oscar per il miglior film straniero con Elling, nel 2002) ci porta per intelligenti spostamenti minimi a dimenticarci la storia raccontata dalla parte dei vincitori, dopo averci inizialmente dato qualche rassicurante coordinata sul tedesco ottuso e il britannico ragionevole, e anche di quella raccontata dalla parte dei vinti.

La verità è che questo film non celebra la Storia, per quanto sia minuziosamente documentato, ma descrive gli uomini, le loro corazze, il loro desiderio di toglierle, anche se cameratesco, la loro capacità di alternare crudeltà a pietà, il bisogno di obbedire e quello di trasgredire. C’è un commovente filo di umanità che lega insieme tutto il film, trasportato da una comicità a tratti dirompente che fa però ridere in modo caldo, anche se Næss da bravo scandinavo ha un’asciuttezza assoluta, e non concede nulla ai buoni sentimenti.

E c’è una tensione drammatica e emotiva che fanno restare in sospensione fino alla fine (che in realtà prosegue oltre il tempo narrato nel film), tensione mirabilmente gestita da attori che Næss ha diretto con sapienza teatrale: Florian Lukas (splendido in North Face), il semisconosciuto Lachlan Nieboer – che grazie a questo film farà moltissima strada –, il convincente Rupert Grint (il Ron di Harry Potter), il giovane e promettente David Kross, a cui spetta il ruolo più ingrato, e dulcis in fundo Stig Henrik Hoff (unico attore norvegese tra i protagonisti) che è davvero una roccia e sa far evolvere il suo personaggio come raramente ci è dato di vedere, complice certo una sceneggiatura dove il regista ha saputo muovere gli attori come in un gioco di scacchi.

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Intervista a Petter Næss

Sarebbe davvero un delitto se questo film non venisse presto distribuito in Italia; che speranze ci sono?
Il film è stato acquistato per la distribuzione dalla BIM, resta da stabilire se verrà passato al cinema o distribuito solo in formato DVD o on demand, questo non è stato ancora deciso. È stata un’esperienza molto bella mostrarlo al pubblico italiano data la calorosa accoglienza che ha ricevuto. È una storia universale, con attori potenti, ambientata nell’esotica e selvaggia natura norvegese: spero che possa incontrare il favore del pubblico italiano al cinema.

Hai scelto di raccontare una storia vera: hai avuto necessità di modificarla molto per renderla così emozionante come viene fuori dal tuo film?
Sì, certo, la maggior parte di ciò che accade nel capanno è una creazione, tuttavia si basa su una grande conoscenza dei personaggi reali, della natura e delle condizioni storiche di quel momento. Gli avvenimenti sono comunque quelli narrati: il fatto che si siano sparati addosso e si incontrino nel capanno, e anche il finale con la pattuglia sciistica norvegese è relativamente autentico. Ma ovviamente non voglio rovinare la sorpresa agli spettatori con troppi spoiler.

Hai scelto di raccontare questa storia perché era troppo interessante per lasciarsela scappare, o perché volevi trasmettere dei contenuti umani profondi?
Entrambi. È un fantastico set-up. E poi volevo raccontare una storia su ciò che accade quando i nemici si incontrano e loro pregiudizi vengono messi alla prova. Quando iniziano a prendere confidenza con le rispettive uniformi e devono lottare per sopprimere un crescente rispetto e riconoscimento dell’altro. Quando cominciano a vedere forti analogie con se stessi. Volevo anche dire di quando si scopre che la storia che ci propongono non è vera, perché il nemico non è quello che ci raccontano.

Hai avuto contatti con i reali protagonisti di questa storia o le loro famiglie? Come hanno preso il film?
Ho incontrato il vero Horst Schopis due volte prima che morisse, a 99 anni. E ho incontrato la sua famiglia e i suoi amici. Sono stati tutti molto aperti e generosi di storie e dettagli che ci sono stati molto utili, e tutti quelli che sono venuti alla prima sia in Norvegia e che in Germania erano molto commossi e entusiasti, e molto grati per il modo in cui lui e gli altri protagonisti sono stati ritratti nel film. Ho anche fatto una proiezione per alcuni veterani di guerra norvegesi, soldati e piloti che avevano combattuto contro i tedeschi, che si sono emozionati e commossi moltissimo. Temevo che si sarebbero risentiti del fatto che avevo ritratto i loro antichi nemici in un modo troppo “umano”, ma non è stato così: sapevano, avevano imparato, che il nemico era solo un altro essere umano. Questo riconoscimento è stato molto importante per me.

 

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