Il mio testamento

Nell’Italia scaramantica un testamento fa sempre effetto, la gente strabuzza un po’ gli occhi, si irrita quasi, persino, al solo sentirne parlare. Ma io ho sempre tenuto la morte per mano e anche se mi fa paura ci penso spesso, mi ci avvicino, la intravedo casuale, fulminea; la annuso.
E allora dopo aver letto il testamento di Giulio Mozzi ho pensato che invece di scriverlo solo su un pezzo di carta e consegnarlo a un notaio, potevo anche io renderlo pubblico, in un luogo dove fosse talmente accessibile da essere inconfutabile, inequivocabile, inoppugnabile anche dal più arcigno dei preti.
C’è il testamento dei beni, prima di tutto. Ho solo un appartamento oltre alle mie cianfrusaglie, e vorrei che lo avesse mia sorella Carmen, visto che non ne ha uno suo (“ho un appartamento” sono parole grosse, diciamo che è proprietà della banca, più che altro, ma a venderlo se ne ricava qualcosa).
Ma vorrei soprattutto dire di me, della mia carne, come si chiama nell’Antico Testamento.
Vorrei prima di tutto affermare che se esiste un diritto alla vita, deve esistere un diritto alla morte. Nessuno può considerare togliersi la vita un reato: il corpo è di proprietà di chi lo vive, nessuno può imporre la vita a chi non la desidera, e chi non vuole continuare a stare in questo mondo dovrebbe essere aiutato a farlo con amore e cura. Se il desiderio di morte è legato a depressione è giusto aiutare, persino con obbligo farmacologico, a superare un momento difficile, ma oltre un certo limite non si può andare: bisogna imparare a rispettare la volontà del singolo, anche se ci fa sentire inutili, cattivi, egoisti. È un problema nostro, non di chi non vuole esserci più. Rispetto della volontà individuale.
Poi voglio affermare un mio altro diritto: il diritto a una vita dignitosa. Se io non voglio, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, diventare un vegetale peso per gli altri, peso sul sistema sanitario nazionale, peso sul bilancio della spesa pensionistica, è un mio diritto chiederlo e ottenerlo. Perché costringermi a cure che mi tengono in vita artificialmente senza speranza concreta di un recupero? Perché stare (anziana o meno) senza intelletto, bavosa, incontinente, immemore, incapace di provare piacere agli stimoli della vita; perché vivere? Lo dico ora: se una malattia mi brucia il cervello, se un incidente mi rende inabile, se per qualsiasi ragione il mio cervello e il mio corpo non sono più in grado di esprimere un desiderio di vita, interagire con il mondo in modo razionale, se sono ridotta a sole funzioni corporali senza anima, aiutatemi a morire, lasciatemi andare. Qualche giorno va bene, qualche giorno per tenermi la mano, per dirmi addio in un letto di ospedale o meglio a casa va bene, ma poi spegnetemi, senza farmi soffrire, lasciatemi in pace. È questo che voglio. La vita tanto per respirare non mi interessa. Non voglio cure accanite e dolorose, non voglio aghi buchi flebo cateteri macchinari spaventosi sballottamenti. Voglio stare tranquilla, voglio essere lasciata in pace, quando è il mio turno per le praterie. La mia vita è stata durissima, ma da un certo punto in poi intensa e bella. Quello che è importante per me è come l’ho vissuta, quanto l’ho morsa, quanto coraggio e rabbia di vita ci ho messo dentro, quanto amore, quanta energia. E ce l’ho messa, tutta. Potrei fermarmi ora e sarebbe cmq tanto, sono soddisfatta di me. Quindi fosse anche domani, non vi accanite: lasciatemi andare.
Per quanto riguarda i miei organi, sono iscritta all’Aido da più di vent’anni.
E poi voglio ribadire il mio diritto di laicità: non voglio estreme unzioni, messe e chiese. Il mio Dio non abita lì da tanto tempo, e a parte Suor Gloria e Don Luis non conosco nessun altro membro della chiesa di cui mi fido. Quindi non voglio nessun simbolo cattolico sulla mia morte, nessun rituale: funerale come fossi atea. Mi ritengo cristiana ma rifiuto totalmente il cattolicesimo, e qualsiasi altra forma codificata di religione.
E non voglio stare in una bara a decompormi: crematemi, e se possibile, buttate le mie ceneri giù dalla cima del Civetta, così al tramonto arrossisco di bellezza insieme alle mie montagne.
E amen…