Appunti imprecisi dal Göteborg Film Festival

Si è appena conclusa la 39° edizione del Göteborg Film Festival, il più importante evento cinematografico svedese. I numeri sono imponenti, viene da dire commoventi: circa 450 proposte tra lungometraggi, documentari, corti e retrospettive, spalmati in un frenetico calendario di soli undici giorni. Anche con la migliore buona volontà, non sono riuscita a vederne che una percentuale piuttosto esigua, ma è stata un’esperienza comunque appagante e stimolante.

La prima cosa che voglio comunicare è la mia sorpresa: il nostro pianeta riluce di bellissimi film, che quasi nessuna sala cinematografica proietta. Ma queste pellicole ci sono! Mi sono sentita come l’amico di Peter Pan che improvvisamente ritrova i pensieri felici che lo fanno volare: letizia e cuore larghissimo per tutte queste storie che i registi si ostinano a voler raccontare e che i produttori, spesso anche finanziati dai rispettivi organismi statali, hanno il coraggio spavaldo di produrre.

Quanta bellezza e quante cose importanti ci sono, e passano così inosservate. Che delitto, che spreco. Ma soprattutto, prendendo a prestito Černyševskij, viene da chiedersi: “che fare?”. Sviluppare un sistema come Netflix ma con solo cose di qualità? Sono sicura che pur essendo un prodotto di nicchia, non sarebbe poi così fallimentare, anzi. Poter vedere tutto ciò che non riempie una sala ma un’anima non può che avercelo, un pubblico. Mi piacerebbe lavorare a un progetto così.

Ma intanto il festival: come sempre, per mia scelta di vita, non parlerò di ciò che non mi ha entusiasmato, se non per una considerazione generale: mentre i film dei registi giovani hanno commosso, sorpreso, toccato e messo in discussione, quelli di registi più consolidati si sono spesso rivelati banali e senza coraggio. Forse perché questi registi si confrontano con un’ottica di una sala da riempire, costi di produzione a cifre con uno o due zeri in più e battaglie per la distribuzione, mentre un giovane regista magari alla sua opera prima può tentare di andare, almeno questa volta, dove il cuore brucia.
E quindi una serie di film per i quali non esito a utilizzare gli aggettivi importante e necessario, che raccontano storie vere e forti, senza nessun interesse a scandalizzare o provocare, ma per il piacere di narrare qualcosa che abbia un peso, un fremito, un dolore. Storie in cui il regista spesso si pone delle domande senza avere una chiara risposta, e senza volerla offrire, con l’intento più di generare un quesito che di lanciare una provocazione. Un altro aspetto comune ad alcuni di questi giovani registi è che le storie raccontate prendono spunto da esperienze personali, e ne sono in un certo senso l’elaborazione. Forse anche da questo la forza di Bikupan [L’arnia] di Amanda Leissner, dove si racconta una tragedia familiare con grande forza recitativa e ottimi tempi narrativi, o Arianna di Carlo Lavagna, che affronta un tema misconosciuto legato al gender in modo delicato e senza nessun stereotipo, con un ottimo esordio di Ondina Quadri nel ruolo della protagonista, e una sempre stellare Valentina Carnelutti nel ruolo di sua madre. Altre storie familiari importanti per Granny’s dancing on the table di Hanna Sköld e Returning Home di Henrik Martin Dahlsbakken, dove è dolorosamente a fuoco il ruolo paterno.
Non una storia personale bensì l’adattamento da un romanzo di uno dei più conosciuti romanzieri norvegesi, Ingvar Ambjørsen, di cui porta lo stesso titolo, Hevn [Vendetta] girato della giovane Kjersti Steinbø. Pur scritto da un autore maschile, anche attraverso lo sguardo scrupoloso della regista, sa comprendere e accogliere una visione molto equilibrata dell’universo femminile, narrando una storia di abuso su un’adolescente; ottima fotografia e ottimi attori lo rendono veramente una grande prova.
Molti di questi film sono radicati nella narrazione di temi legati all’adolescenza, visti ancora con un occhio fresco e partecipato, vero. In questa categoria rientrano senz’altro anche due film europei francofoni: Avril et le Monde truqué, film di animazione di Christian Desmares e Franck Ekinci adattato dalla graphic novel di Jacques Tardi, e Microbe et Gasoil, il nuovo film di Michel Gondry, entrambi forti e ricchi di un immaginario realistico ma poetico sull’adolescenza.

Anche il programma dei cortometraggi era ricco e trattato con grande rispetto e dignità dagli organizzatori del festival. Purtroppo anche qui ho dovuto fare una grande selezione, ma consiglio con forza tre mediometraggi di circa 30 minuti ciascuno: Baby della giovanissima Lovisa Sirén, gravido di temi cruciali e importante anche per uno sguardo sulla Svezia multietnica di oggi, poi Surprise di Kristina Humle, che torna sul tema morboso di Hevn con abile tensione dei tempi scenici. Infine Senses del giovane svedese Zanyar Adami, che seppure quasi esordiente ha realizzato un gran film per la magistrale recitazione della affermata attrice teatrale e cinematografica Lena Endre.

Per quanto riguarda l’Italia, che quest’anno era la nazione in focus del festival, c’è stata molta gioia per la vittoria dell’Ingmar Bergman International Debut Award di Pietro Marcello con Bella e perduta (accidenti l’ho perso, lo vedrò presto!). E voglio chiudere con una certa commozione questa brevissima e totalmente insufficiente carrellata con una sommessa nota su Non essere cattivo di Claudio Caligari, che mi ha veramente toccato il cuore. Per farlo torno ai temi iniziali di questo post: che bello vedere così tanti splendidi film ma allo stesso tempo rattristarsi perché sono così pochi quelli che vedono la luce e ancor meno quelli che approdano in una sala cinematografica. Pensare che un regista con tutta questa forza narrativa, intelligenza e capacità filmica non sia riuscito a girare quasi nessuno dei film a cui ha lavorato per tanti anni genera rabbia e rimpianto. Speriamo non ci siano altri sprechi di talento e bellezza.

La poesia e lo spirito