Con grandissimo piacere vi segnalo la pubblicazione di una mia nota sul concerto di Antony alla Cavea di Roma il 28 luglio 2009 sul sito Music on TNT.
Eccola qui:
L’essere perfetto: Antony & The Crying Light
Una creatura dei boschi con un corpo da cartone animato, un omone bambino, una donna sovrappeso; abiti informi con sopra una casacca nera che sembra la veste da casa di una vedova meridionale. E queste braccia, queste mani, che con movimenti delicati ma massicci descrivono il movimento della sua voce dentro il corpo, raccontano la sua uscita dalla gola dopo il cammino dal diaframma attraverso i polmoni: passando dentro l’anima.
La voce di Antony è equilibrio perfetto tra maschile e femminile. Mantiene intatto uno spettro di ogni possibilità vocale – dalla più scura alla più cristallina – che va ben oltre le sue abbondanti due ottave. Antony racconta la possibilità di coesistenza di due supposti contrari: maschile e femminile fusi, rappresentati oltre la dialettica. Non c’è alternanza o antagonismo, va in scena una terza via sessuale che trascende il corpo. La sua voce abbraccia, contiene, accoglie. Una sorta di amore universale che si offre con semplicità. Non c’è nessuna diva su quel palco, ma un ragazzo che dona il suo talento con una modestia disarmante, quasi il pubblico fosse ancora quella dozzina di newyorkesi seduti ai tavolini che per molti anni di gavetta sono stati il suo uditorio, disattento come possono esserlo solo i cittadini della Grande Mela. Sembra aver imparato tutto da quegli anni, portarseli ancora dietro quando con grande calma reagisce a uno spettatore che disturba dicendoci “tranquilli, non è nulla, sta solo passando un suo momento”.
Eppure non assomiglia affatto a un localino off di New York la cornice di questo concerto: la Cavea dell’Auditorium così scabra e poco elegante nel suo allestimento lascia cadere lo sguardo soprattutto sulla corposa orchestra sinfonica di quasi 50 elementi. Emerge solo a tratti il pianoforte, per il resto è tutto un sostenere discreto dell’emotività vocale di Antony, che si lascia accarezzare dagli archi, quasi la metà dei musicisti, e dai fiati dosati con sobrietà. L’arpa è stata quasi un vezzo, si è forse sentita per venti note in tutto, ma così poetica in prima fila.
“Orchestral singing” è la sua definizione di questo concerto disarmante dove ha eseguito brani dai più vecchi come “Cripple and the Starfish”, scritta quando aveva vent’anni e contenuta nel suo primo album, fino a “The Crying Light”, title track del suo ultimo cd dedicato al ballerino nipponico Kazuo Ohno, ritratto sulla copertina.
Le sue canzoni raccontano la sua vita come un romanzo di formazione. La sua anima nuda si offre spudorata e serena narrando di un ragazzo che sogna di diventare un giorno una donna bellissima; dell’essere collegato alla terra come parte di un tutto; dell’amore per una persona a cui chiede “sei un ragazzo o una ragazza” tale è la sua bellezza; della difficoltà a lasciare un posto che si è amato ma di come questo sia necessario per poter amare tutto in modo nuovo; di uomini in lacrime che ha saputo consolare; di sconosciuti a cui è stato necessario tenere la mano; di madri viste con gli occhi dello loro stesse madri, in una continuità eterna di esistenza sul pianeta terra. È metafisico Antony, spiega il suo essersi sentito alieno nel mondo finché non ha compreso che lui era parte del miracolo dell’esistenza del pianeta, composto al 70% di acqua, omologo a un ruscello, parte di un tutto pulsante. Niente paradiso per lui, un posto triste e bianco pieno di parenti che non vuole rivedere e senza nessuno dei suoi amici. La vita è qui, spiega, nel miracolo della vita, nella materialità della terra su cui viviamo. Si perde in chiacchiere, ogni tanto, come un commensale che passato dal tavolo da pranzo al divano sorseggi una grappa esprimendo qualche pensiero libero, intimo. Nulla di preparato o studiato, ma una conversazione che interrompe la musica per spiegarla, rafforzarla.
Alla fine ciò che resta è un’esperienza di canto, certo, ma soprattutto di un’anima che si è svelata senza vergogna per quella che è, intensamente maschio-femminile, in equilibrio accogliente sulla diversità del mondo.