Una recensione che entra giusta giusta nel 2012 per un album molto bello, che vi consiglio…
Naturalmente per SlowCult.
La critica ha parlato davvero bene di questo cd, l’ultimo della produzione di Riccardo Prencipe e le sue Corde Oblique, ed era tempo che anche Slowcult se ne occupasse con un ascolto approfondito. E meritato, diciamolo subito, ché A hail of bitter almonds è di certo un prodotto di grande talento e raffinatezza musicale. Prencipe è alla sua sesta prova, nonostante la sua giovane età, la quarta con Corde Oblique dopo aver inciso i suoi due primi cd con il gruppo Lupercalia già nel 2000 e nel 2004. Partenopeo e coltissimo (storico dell’arte), il Maestro Prencipe cura l’aspetto compositivo dalla musica ai testi, passando per gli arrangiamenti e per la scelta dei collaboratori che contribuiscono a dare suoni molto particolari e riconoscibili alla sua musica, e momenti molto originali come il flauto di pan suonato sulla sesta traccia, Slide.
L’etichetta di genere, “Ethereal-NeoFolk”, dice abbastanza poco, come spesso accade, su quindici brani molto diversi tra loro che si dispiegano come una sinfonia, con momenti dal maestoso all’intimo, dove le voci (quelle femminili soprattutto) e un violino elegantissimo, legano a sé suoni diversi e mai campionati in un affresco che alla fine produce effetti acustici rock più vicini al prog che al folk, seppure la coloritura folcloristica e mediterranea resta sempre viva e forte, ampliando molto la potenza espressiva e la portata graffiante di alcune tracce, come ad esempio in Arpe di Vento, oppure nel cantato popolare di La madre che non c’è e La pietra bianca, o nell’arrangiamento flamenco di Crypta Neapolitana dove si apprezza forse al meglio l’arpeggio sopraffino di Riccardo Prencipe.
In tutto questo, non si perde mai il rock – salvo in un paio di pezzi a mio avviso troppo melodici, uno dei quali scelto (ahimè) per il video ufficiale – che rendono questo album assolutamente trasversale.
E se questo cd non piacesse comunque, varrebbe in ogni caso il prezzo del biglietto la strepitosa cover di Jigsaw falling into place dei Radiohead: che l’adorato Thom Yorke non mi fulmini, ma questa versione ha una potenza, una spinta addominale e diaframmatica che nell’originale manca; è un pezzo che entra nelle vene e resta attaccato alle viscere.
Spiace dirlo, ma questo lavoro meriterebbe una scena musicale live ben più ricca e sprovincializzata di quella italiana, e infatti il gruppo ha esperienze interessanti di live europei. Cominciamo da questo per parlare con Riccardo Prencipe:
Quanta fatica bisogna fare per dare un senso economico a un lavoro elegante e potente come questo?
Davvero tanta, c’è che preferisce acquistare un’auto nuova, io ho provato a investire tutte le mie forze per avere un prodotto di ottimo livello sonoro, che non abbia da invidiare al suono dei dischi di “Serie A” della musica. Forse l’ho fatto perché penso che le nostre idee stavano maturando e meritavano di essere ben esposte, se ho avuto ragione o no lo dirà solo il tempo. Va però precisato che, a mio avviso, la prima cosa sono le idee. Se scrivi musica di cattivo gusto puoi investire qualsiasi cifra, resterà musica pessima, d’altro canto se hai belle idee e buon gusto, anche una registrazione non impeccabile ti permette di far capire che hai qualcosa dentro.
Cosa hai voluto esprimere, sia dal punto di vista musicale che poetico, con questo album?
Fette di vita raccolte e messe in cornice, ogni disco, libro o qualsiasi altro prodotto che viene dalla creatività umana non è altro che questo. Bisogna partire dal reale per condirlo di se stessi, almeno è quello che provo a fare io; la squadra di musici mi aiuta tantissimo, senza di loro non sarei nulla, ringrazio in particolar modo la squadra dei live: Edo Notarloberti, Claudia Sorvillo, Umberto Lepore, Alessio Sica; che mi è sempre vicina sia nelle poche situazioni facili che nelle tante difficili. Sono poi tante le persone che ci hanno aiutato, in primis gli appassionati di musica che con il loro prezioso passaparola, più efficace di qualsiasi agenzia pubblicitaria.
Personalmente trovo che A hail of bitter almonds sia il tuo lavoro più interessante fino ad oggi. Come proseguire da qui?
Miro soprattutto a intensificare l’attività dei concerti, è quello il momento più bello e soprattutto è il momento in cui si cresce, si matura, si dialoga con chi ci segue. Sono tempi durissimi, se tutti noi andassimo a più concerti e acquistassimo più dischi sarebbe tutto meno difficile.
Continuo a scrivere, ma cerco di scrivere meno e di intensificare e variare il mio linguaggio, per questo bisogna vivere, mi interessa andare verso un linguaggio diverso nella coerenza, spero di riuscirci.
Come storico dell’arte, soprattutto antica, senti molto certe influenze e le trasponi su questo album. Sono aspetti diversi di uno stesso humus per te?
Esattamente, sono molto legato a cosa scrisse il fotografo-pittore Man Ray: “È stato sempre irritante per me sentirmi chiedere, secondo l’attività del momento, se avevo deciso di abbandonare l’una per dedicarmi all’altra. Non esisteva nessun conflitto tra le due attività; perché la gente non riesce a capire che una persona può impegnarsi in due attività nel corso della propria esistenza, alternativamente o simultaneamente?” Aggiungerei inoltre che nel mio caso le due attività si rinforzano e nutrono a vicenda, se una delle due venisse a mancare ne risentirebbe anche l’altra.
Virtutem Forma Decorat.