Qualche mese fa ho finito di scrivere un romanzo su una delle figure più affascinanti di quello che viene comunemente definito “brigantaggio post-unitario”, una donna che si chiama Michelina Di Cesare.
La definizione “brigantaggio post unitario” è una convenzione in larga parte dovuta a un bisogno sabauda di confinare al banditismo un fenomeno di insurrezione sociale all’invasione delle truppe dell’esercito Savoia nell’Italia meridionale, in quel processo di accaparramento delle ricchezze del Regno delle Due Sicilie che chiamiamo oggi “Unità d’Italia”. Lungi da me pensare che avesse un senso tenere frammentato un paese che al di là delle proprie diversità ha certamente un humus comune, ma penso che la Storia di questa fase del paese andrebbe riscritta, cambiando anche un po’ della toponomastica nazionale. “L’unificazione” è stato un processo occupazione del Regno delle Due Sicilie da parte del Regno Savoia che ha portato a una guerra civile durata quasi dieci anni, con una repressione feroce di intere masse contadine. Ci sono decine di ottimi volumi sull’argomento, quindi non mi dilungherò su questo, limitandomi a spiegare che ho scoperto questa “Storia” una sera di settembre del 2003, a una festa di Liberazione, grazie allo storico Enzo Di Brango, e da allora ho elaborato la volontà di conoscere e raccontare la vita di Michelina. Qualche anno di letture e di ricerche di archivio, con l’aiuto inestimabile di Valentino Romano, e le dritte di Maurizio Restivo, due storici di grande levatura dell’argomento, in particolare di brigantaggio al femminile, e sono riuscita a scrivere questo romanzo, che spero di pubblicare presto. Un primo estratto è ora su unonove, un altro tra una decina di giorni per Loop Magazine. In questa storia, nella mia Michelina Di Cesare, più che il cuore ci ho messo tutta l’anima. Se sono riuscita a rendere giustizia a lei e agli altri poveri disperati “briganti” non lo so, posso solo dire che ci ho provato con grande rispetto e amore per le loro vite, la loro rabbia e il loro futuro defraudato.
La battaglia vinta, la guerra persa: l’altra storia dell’unità d’Italia
[L’uomo a destra nella foto è Francesco Guerra, marito di Michelina Di Cesare]
Alto casertano, 30 agosto 1863
Mattina presto.
Sono quasi un centinaio. Solo per i cavalli sembrano davvero un esercito. Criniere scrollate, sbuffi e nitriti, colli potenti che brucano l’erba bruciata di fine estate, musi tumidi che si tuffano nel fontanile a turno. Puzza di urina e sterco di cavallo, ronzio di mosche e tafani. Non fa ancora caldo. Sono quasi un centinaio. Francesco con una scusa si è allontanato di duecento metri dal campo per guardarli nella prospettiva controluce. Quelle figure di uomini, con qualche donna che da qui non si distingue: stesso vestiario, stesso portamento. I nuovi sono troppi, almeno una ventina. Non sono affidabili. È la prima volta, potrebbero aver paura. Potrebbero pentirsi subito, scappare, tradire. Nessuno gli ha ancora offerto soldi per restare, bisognerà vedere ciò che fanno oggi a Galluccio, se ci mettono il cuore e la testa. Se capiscono che significa. Alcune facce Francesco già lo sa che durano poco, niente: già stasera se ne torneranno a casa, e domani saranno dai Carabinieri a piangersi nelle sottane. Diranno che sono stati costretti con la forza, che li hanno minacciati, che hanno minacciato le famiglie. Quel De Lorenzo, quel Corbo, quel Dicivita, ad esempio: ci scommetterebbe dieci ducati ciascuno che quelli se la squagliano, come li vedesse farlo ora. Ma non importa. Oggi sono cento, è un grande giorno. Fanno ridere suo fratello Serafino e Carlo Giuliano, il Biondino, con la divisa da Carabinieri. L’altro fratello, Giuseppe, ha detto che lui no, vuole fare il brigante, che lui manco per scherzo se la infila la divisa da Regio Carabiniere; che lo legassero invece, che gli mettessero le manette, che così ci s’abitua, che tanto finirà così, se non se ne scappa prima in America, ammanettato e ammazzato, col cervello che scoppia dalla testa sulla pubblica piazza. E rideva Peppino, ma tanto era serio. E il Biondino che gli puntava il fucile e faceva “pum pumm!” e lui che gemeva e si buttava a terra. Brutto da vedere: lo faceva bene; pareva vero. Avrebbe dovuto esagerare un po’, fare il pagliaccio. Così porta male, prima di un assalto. Con tutti questi ragazzini che si cacano sotto. È per ciò che lui e Mimmo hanno scelto di convocare l’adunata in questo punto: non ci vengono mai qui, troppo esposto il fianco est della collina. Quindi se questi vanno a fare le spie non ci sarà danno. Non vedranno nessun covo questi qua.
Don Giovanni Sciarretta, arciprete di Galluccio, gli ha fatto sapere tramite il nipote che il grosso della truppa è altrove, stanno verso Roccamonfina almeno fino a domani, non dovrebbero esserci più di una ventina di uomini. I carabinieri invece se ne sono a Mignano: le strade sono libere.
Manderanno avanti i falsi carabinieri coi falsi arrestati, per cominciare, in modo che siano già una trentina dentro Galluccio. Poi arriveranno loro. Suoneranno la tromba all’ingresso in paese, così l’esercito e la guardia nazionale verranno subito allo scoperto. Gli faranno vedere di che pasta è fatto l’esercito borbonico.
I cavalli hanno riposato tutto ieri e ora rompono il passo per accennare un po’ di trotto, ma Francesco Guerra vuole tenerli freschi per l’entrata in Galluccio. La prima batteria con i falsi carabinieri è partita da venti minuti, ma parte del tragitto i finti arrestati dovranno farlo a piedi: deve dargli altri dieci minuti di vantaggio perché arrivino in paese. Gli resta il tempo di passare anche per San Clemente, che è lungo la strada: c’è una cosa che vuole fare – davanti a tutte quelle settanta persone che ha con sé – con indosso la divisa borbonica da capitano, e la coccarda.
Pochi passanti nell’angusta via che porta alla piazza del paese; qualche cane, la coda di un gregge di pecore che sta prendendo la campagna. Comanda il galoppo per gli ultimi duecento metri, tenendo con la sinistra le redini e con l’altra una baionetta, e mentre i suoi sparano in aria lui grida «Viva Francesco II Re di Napoli!» e si arresta davanti al posto di guardia. Ci sono solo due militari, terrorizzati si guardano come a decidere cosa fare mentre la via in un attimo si gremisce di uomini e cavalli. Si appiattiscono contro il portone, non sanno contro chi o cosa puntare le armi, uno di loro si copre il viso con il gomito a un gesto di Francesco, ma non è verso di lui che sta direzionando la sua baionetta: la punta contro lo stendardo sabaudo. Lo aggancia e lo butta a terra, nella polvere, poi lo calpesta con gli zoccoli. Grida di approvazione, altri lo imitano urlando «Morte ai Savoia!», ma Francesco ha già spronato il cavallo e sta lasciando il paese: meno di due chilometri per Galluccio, meglio tenere occhi aperti e un trotto sostenuto.
Il clangore degli zoccoli dei loro cavalli che rimbomba lungo le mura delle case è assordante, si arrampica lungo un’arcata dentro le mura del paese e cola abbagliante e metallico ovunque, lambisce il campanile della Collegiata di Santo Stefano da cui suonano le campane. Per dire a tutti di scappare, o di accorrere, difficile capirlo. Caos. Spari provengono dalla piazza, dal palazzo ducale dove sono acquartierati i reparti di fanteria. I militari asserragliati lì sono effettivamente una ventina, come aveva fatto sapere Don Sciarretta.
Guerra, Fuoco, Tommasino e Valente si sono spartiti il paese in quattro quadranti, ciascuna banda ha la sua zona da saccheggiare. La parte più ricca è andata a Fuoco, ovvio, ma Guerra è soddisfatto della sua: conosce bene il paese, sa dove andare a frugare. E tutti sanno chi non va toccato, gli ordini sono precisi. Ci sono conti da pareggiare, chi li appoggia vuole la sua controparte. Signori e signorotti da accontentare, e anche Don Giovanni, l’arciprete. Non piace a Francesco la sensazione che qualcuno muova i loro fili, ma fa parte del progetto, del ritorno del re Francesco II sul trono.
Falsi carabinieri e falsi briganti ricevono un cambio dai nuovi arrivati, li coprono mentre si continua a sparare. Non è importante ammazzare nessuno, ma solo tenere l’esercito inchiodato lì mentre gli altri depredano ovunque. I più benestanti provano a sprangare le case, a puntare le armi e fare fuoco, ma il loro sciame travolge ogni difesa. Entrano ovunque, come una mareggiata, e le strade si riempiono di cassette, botticelle, salami, prosciutti, formaggi, qua e là un tappeto, una coperta, un lume; come spiaggiati relitti di navi.
Grida di una ragazza da una cantina, sono in tre, le stanno strappando i vestiti di dosso. Mimmo Fuoco entra e grida, battendo il fucile contro la porta «Lassatela, v’avevo detto gnente donne, chisto è l’esercito regolare di Francesco II Re di Napule!» Sono delusi, uno fa gli occhi cattivi, ma la lasciano andare. Scoppia a piangere la ragazza, si copre coi brandelli di ciò che resta, le sanguina il labbro; scappa lungo la strada, inciampa ma non cade, corre verso la chiesa. Le campane hanno smesso di suonare. Vetri per terra, pezzi di mobili, tende strappate, roghi crepitanti.
I militari sulla piazza sono sempre più frustrati, stanno sprecando munizioni, sanno che dovranno spiegare di non essere riusciti a intervenire, creare un diversivo, passare all’attacco, ammazzare o imprigionare qualcuno. «Diciotto contro cento!» si ripetono, mentre sparano ogni tanto qualche colpo in direzione dell’appostamento delle bande, che fanno fuoco da dietro due angoli delle vie che si affacciano sulla piazza. Nessuno può colpire nessuno: entrambi sono ben protetti ma devono continuare a tenersi impegnati uno con l’altro, come in un gioco delle parti. Finché finalmente lo sciame avrà preso tutto quello che può asportare, consumato qualche vendetta personale, trovato la catenina d’oro o l’anello da regalare alla fidanzata, alla madre. Magari qualche bel fazzoletto ricamato, di seta. Qualcosa per la banda e qualcosa per loro, piccoli trofei da tasca, regalini per meritarsi un abbraccio, un bacio da qualcuno.
La resistenza in paese è finita, nessuno tenta più difese: le case sono spalancate, aggredite, scomposte. Si sono tutti arresi, attendono solo che vadano via. Torvi stanno ammucchiati in piedi a braccia conserte in crocicchi per le strade, l’odio ha soppiantato la paura, fiele di vendetta in bocca.
Le bande stanno cominciando a radunarsi e contarsi adesso, solo qualcuno è ferito, non grave. Bisogna muoversi, i rinforzi dell’esercito arriveranno certamente a momenti. Da ora in poi ogni gruppo per sé. Francesco Guerra richiama i suoi, qualcuno sta caricando troppe cose sui cavalli, non c’è tempo di fissare il carico ormai, non importa prendere tutto, maledizione! Carlo e Mimì sono già pronti, affianco a lui, li raggiunge Dino con un salame ficcato in vita, lo tira fuori e fa «pum pumm!» contro tutti, ridono con l’adrenalina che morsica le arterie. Mancano ancora i suoi fratelli Serafino e Giuseppe, sono in piazza a tenere bloccata la truppa, li prenderanno andando via, salteranno sui cavalli.
All’improvviso un grido passa veloce di bocca in bocca per il paese «Arrivano i carabinieri!», scatti di nervi e si inizia a scappare. Francesco punta alla via che sbuca alla piazza, tiene le redini dei cavalli dei suoi fratelli e gli fa il verso del chiurlo. Non si muovono, Francesco si avvicina e vede che sono impegnati con un militare che sta facendo il coraggioso: è uscito più allo scoperto e gli impedisce di ritirarsi. Francesco impugna la baionetta, appoggia la canna contro un carro piazzato di sbieco sulla via, prende lentamente la mira e fa fuoco. Due colpi e l’uomo si accascia. I suoi fratelli sparano un altro paio di colpi e poi vengono via tutti, saltano in sella e in venti secondi sono tutti fuori da Galluccio.
«L’avimmo tenuti come topi! Nun hanno potuto fa’ gnente!»