Questo racconto è uscito su “Rassegna sindacale”, la rivista della CGIL, per venire poi pubblicato da Ediesse nell’antologia “Il lavoro e i giorni“. L’avevo scritto per parlare del tema IVG (interruzione volontaria di gravidanza), che mi sta molto a cuore, ma andava benissimo per il tema. Il racconto è un po’ amaro ma – credo – abbastanza vero.
La versione rtf è scaricabile qui.
FESTA DI COMPLEANNO
Quindi oggi facevo diciassette anni. Tu mi avevi comprato una felpa e quel portachiavi firmato di marca accettata a livello radical-chic, però pensavi che era un peccato che non fossi proprio proprio no global, che non mi facesse schifo anche Lonsdale. Ma ti accontentavi così, per questo figlio cresciuto negli anni ’90. Ti era andata quasi troppo di lusso con me, non mi piaceva neanche il calcio. E ti impensierivi su certi dettagli che lasciava scappare il mio zainetto Eastpak, perché va bene la canna che è di sinistra, però era meglio se era saltuaria, di gruppo, e invece due dico due pacchetti di cartine lunghe, e il set indiano di cartoncini da filtro. Questo significa iniziativa personale, procacciamento diretto e utilizzo quotidiano di stupefacenti.
Allora mi avevi affrontato così, a brutto muso, con una bretella dello zainetto in una mano e nell’altra le Rizla, con la bocca che ti si torceva e non trovava le parole, andava in contraddizione su certe tue idee un po’ stanche di combattere da sole, che avrebbero voluto da sempre un compagno di vita con cui confrontarsi e decidere la linea. “Che significa questo? Hai un allestimento da spacciatore qua dentro!” e io che sono un figlio degli anni ’90 ti ho detto solo “A ma’!” con quel compatimento che ti mette in discussione abbastanza da farti tenere chiusa la bocca.
Poi eri tornata in camera tua, buttando lo zainetto per terra all’ingresso, almeno un gesto di dignità offesa, qualcosa per far leva sul senso di colpa, aggiungere un baiocco al conto per farmi fare il bravo, la prossima volta.
Tornavi al PC, ai libri, a quella recensione del saggio sulla finanza asiatica che forse, forse e ancora forse ti avrebbero pubblicato (senza compenso) sul Manifesto, se Giulio decideva di passarlo a Filippo, se a Filippo piaceva, se c’era lo spazio. Quasi due anni di letture per buttare giù una cartella, un anno di studio per ogni riga, notti di fioche abat-jour. E forse non l’avrebbero mai pubblicato, o forse sì, però solo dieci righe, mutilato, inesaustivo, un aborto. Invece doveva essere la tua consacrazione, la riparazione agli anni di università mai finita a causa mia, il pesciolino che si era annidato nella tua pancia un giorno in cui le mestruazioni che finivano ti avevano fatto sussurrare a Luigi che poteva andare tranquillo.
Il tuo pesciolino. Ti prudeva la punta dei capezzoli e la faccia scocciata di Luigi, i suoi “ma tu mi avevi detto, mi avevi assicurato, io non ci pensavo proprio” non avevano lasciato il segno, la tua pancia come un rotondo acquario di vetro antiproiettile e dentro io che nuotavo, anche dopo gli scazzi con Luigi, anche dopo la rincorsa per le scale, e il vaffanculo (per telefono). Vetro antiproiettile e silenzio marino.
Chiudere tutto, perdere i contatti con i colleghi dell’università, incontrare tre anni dopo il professore per strada, con il passeggino, e lui che non ti riconosce, che ti guarda attraverso. La tua indecisione se fermarlo per un saluto ti avvilisce, poi chiami tua sorella e ti vergogni di piangere perché il pesciolino è lì con te, è il tuo pesciolino, siete rimasti voi due e il tuo lavoro di segretaria allo studio, quello che ti ha accettato il part-time; alle due e mezza sei fuori dall’asilo e andiamo a casa, alle 8 e mezza mi metti a dormire e poi leggi i tuoi libri, finché riesci a tenerti sveglia. Siamo rimasti noi due.
Ora che sono grande hai ripreso a leggere sul serio, a studiare. Niente università, che ti fa sentire vecchia e spesa, ma almeno qualche articolo da mettere in rete, magari la pubblicazione sul Manifesto. Va bene lo stesso, va bene uguale. “Ho fatto altre cose, ho fatto altre scelte” te lo ripeti come un mantra, lo dici a quelli che incontri alle cene dalle tue amiche, che non te l’hanno chiesto. La tua giustificazione a forma di pesciolino, il perdono che cerchi in te.
Ma oggi non era il mio compleanno perché quel giorno, una settimana dopo il vaffanculo per telefono, Luigi ti aveva citofonato e ti aveva detto che dovevate parlare.
Eravate andati a via degli Equi a mangiare una pizza, parlando d’altro, perché avevate bisogno di riconoscervi per quelli che eravate prima, prima che un suo girino invadente bucasse il tuo follicolo autarchico e si artigliassero insieme sulla parete rosata del tuo utero come due alpinisti sprovveduti.
Dopo la pizza OK, eravate di nuovo voi due, vi potevate guardare negli occhi anche se non potevate dire “incinta” ma solo “questa cosa”. Seduto sul bordo del letto e tu sulla poltrona di fronte vi guardavate mentre lui diceva che scusa, si era comportato da stronzo ma insomma era una cosa grossa, gli piombava sulla testa in un momento in cui non ci pensava proprio e “neanche tu Elisa, neanche per te è il momento giusto, ti mancano cinque esami e la tesi, il professore te lo dà di sicuro il dottorato, questo è chiaro, che fretta hai adesso? Ti bruci tutto, butti tutto via”. Il vetro dell’acquario si incrinava. “Poi io penso che anche per noi non possa funzionare adesso, a me di esami me ne mancano otto, poi tre anni di specialità, ma dove andiamo così? Elisa che fretta c’è, lo sappiamo quanto stiamo bene insieme, lo sappiamo che siamo una coppia solida, si tratta solo di rimandare, di aspettare tre-quattro anni, magari siamo più maturi, magari siamo più convinti, magari siamo più solidi, ecco, più solidi. Ma tu davvero ti sentiresti di fare questa cosa adesso, così come stai? Dai, a volte bisogna guardare in faccia la realtà. Magari è qualcosa che ci mette in crisi, mi fa paura.”
Allora avevi portato il tuo acquario incrinato dal dottore che l’aveva rotto e risucchiato con un tubo. Tolto tutto: vaso, acqua, pesciolino.
Anche Luigi, poi; il tubo te l’aveva risucchiato da quello spazio al centro del petto dove lo custodivi. Tu muta, rifiutavi spiegazioni, ma lui aveva capito lo stesso e se ne andava deluso e inabile giù dalle scale, senza il coraggio di trovare altre parole. “Certe cose non le puoi capire se non senti che ti si sono attaccate dentro” gli avevi detto.
Poi avevi tirato una riga, lunghissima. Era vero: c’era stato il dottorato, poi il contratto da assistente e infine, da oggi, la cattedra. Non a Roma, ma pazienza, era già un miracolo così. Due saggi pubblicati, altri due in corso di stampa, decine di articoli, il tuo nome che viaggia autorevole in rete. E da oggi la cattedra, mamma. Inutile pensare al tuo pesciolino, lasciati andare distesa nel fiume come una quieta Ofelia, lascia che tutto scorra dentro e fuori di te, che tutto cambi, che la vita sia vita, che non ci sia assenza. In banco con Andrea invece di me c’è Luca: va bene lo stesso, va bene uguale.