Questo è uno dei miei racconti preferiti, ed è apparso sull’antologia “Allupa allupa” pubblicata da DeriveApprodi a giugno 2005. È un racconto un po’ inquietante e molto maschile, sullo sfondo un po’ sfatto della Casilina Vecchia. Sarebbe bello girarci un corto…
La versione rtf è scaricabile qui.
RUMORE
– Ma puoi sempre andare a casa di tua madre no? Un posto dove andare ce l’hai, no?
– Laura non essere assurda, secondo te io vado a stare nella vecchia casetta della Casilina e mi metto a fare su e giù con Prati tutte le mattine?
– Beh, senti, eri tu che facevi le sviolinate sentimentali sulla vecchia casa costruita pietra su pietra da tuo nonno tra le due guerre, la casa di tua madre che non si poteva né vendere né affittare e neanche togliere i calendari scaduti dalle pareti, beh adesso ce l’hai bella pronta, puoi tornarci a stare, no? E poi scusa se te lo ricordo ma questo appartamento è un regalo dei miei, non penserai mica che ti lascio 120 metri quadri a Prati e nella casupola sulla Casilina ci vado a stare io, Francesco!
– Sei tu quella che si è fatta beccare a letto con un altro sai, stronza!
– Non metterti a strillare che ci sente tutto il palazzo, sei il solito cafone Francesco. E comunque visto che sei un cafone avvocato, saprai bene che anche se andiamo in causa questa casa non me la togli neanche con le cannonate quindi – fece una pausa per prendere bene fiato – adesso io parto per il Circeo e quando torno martedì voglio le tue chiavi consegnate al portiere, ok?
Neanche i calendari scaduti. Non se n’era accorto del Frate Indovino del ’97 ancora appeso in cucina, con gli angoli piegati in giù come orecchie tristi. Ogni stanza manteneva l’odore dei suoi mobili e ogni mobile il suo contenuto, tranne gli abiti, che sua madre aveva chiesto di donare in parrocchia alla sua morte. Ma in camera da letto l’armadio marrone scuro con lo specchio in mezzo e le maniglie dorate e pizzute custodiva ancora il sentore di vecchia naftalina insieme alle stampelle di legno che sbatacchiavano come campane sgangherate ogni volta che apriva o chiudeva le ante. Nel silenzio morto della casa i rumori sgraziati erano insopportabili.
Andava a studio anche il sabato, e prima di decidersi a tornare a casa faceva avanti e indietro nel corridoio d’uscita per memorizzare lo scricchiolio del parquet, il brusio dell’aria condizionata e dei computer. Si rassicurava dicendo che ormai erano quelli i suoni della sua vita, non lo sbatacchiare delle stampelle vuote o il cigolio anni ’60 degli sportelli di cucina. Non li avrebbe mai cambiati però, doveva restare tutto uguale, pittoresco, un’istantanea pasoliniana, un animale impagliato.
Tornava a casa tardissimo, solo per dormire. Una doccia in piedi nella vasca senza tenda, con le spalle strette per non bagnare troppo il pavimento, e poi si buttava sul letto, dicendosi che era stanco morto, che cascava dal sonno, oh sì, era distrutto. Ma non cascava. Dopo un po’ invece il silenzio iniziava a fremergli nelle orecchie interrotto solo dal passare dei treni. La ferrovia. Aveva dimenticato il rumore del treno che sale quando la notte si allarga all’improvviso sterminata e hai paura che ti cada addosso il vuoto del cielo. Coordinate perse. Va in bagno, fa rumori, striscia le pantofole per non sentire più il passare dei treni, si guarda allo specchio e dice a alta voce “Sono Francesco Agostini, dello studio Agostini, Guidetti e Martora. Franco non esiste, io non sono Franco, questa è solo la casa di quando ero bambino, io non sono quel bambino”.
Torna a letto facendo gesti decisi, adulti e maschili. È tutto sotto controllo. È stanco morto, ha cose importanti, è ora di dormire, meglio non leggere nulla. La peretta dell’interruttore lasciata cadere sbatte contro la testata del letto facendo il rumore di una trottola di plastica, poi silenzio, silenzio marrone. Ma i pensieri non si incrociano e non balbettano, il vuoto pulsa di nuovo nelle orecchie, e tornano a passare i treni. È prigioniero della sua macchina del tempo triste ed efficace.
A volte con i clienti perde il filo, si distrae come se nel cervello avesse un guscio di chiocciola che si avvolge e finisce nel rumore del treno. Ha portato la tv in camera da letto, l’ha appoggiata sulla cassettiera marrone provando a mettere tutte le foto di lato, ma non stavano bene così, tutte ammassate, con le foto dei nonni in bianco e nero accanto alle sue a colori. Colori anni ’60 che virano sui toni di un’ocra vecchio e polveroso. È vecchio? Scherziamo, lui è un quarantenne sportivo, sono le foto che hanno preso troppa luce. Meglio lasciare solo quelle dei nonni, e quella del matrimonio di mamma e papà. Le sue nel cassetto, sdraiate. E poi meglio togliere anche qualche stampella vuota, sì, mettere quelle che avanzano sul fondo dell’armadio; rumori attutiti, televisione di sottofondo. Ci voleva poco no? Bastava prendere la tv e metterla lì sul comò per avere i jingles pubblicitari e la sigla del TG a togliere un po’ di marrone. È solo momentaneo, sussurra al comò, poi rimetto tutto a posto.
Volume basso. Maurizio Costanzo. Ecco, così va bene. I pensieri balbettano e si mischiano, sono già due volte che la testa gli cade, solo un piccolo gesto ancora, il tasto rosso del telecomando. Ma dovrà essere un gesto breve, fatto mentre quasi dorme già, un gesto che non riuscirà neanche a tenere nella memoria. Così, un gesto breve, silenzio color ghiaccio immemore. Quasi. Ma poi sale brulicante il suono del vuoto nell’orecchio, e ancora la ferrovia. È il rumore della sua notte a cui è costretto a dare ascolto. È sveglio.
– Mah, guardi, caffè non più di un paio al giorno, e l’ultimo dopo pranzo, ma spesso lo prendo decaffeinato, comunque penso di sì, al massimo qualcosa di blando dottore, lo sa che non mi piace prendere pillole…
– Macchè pillole avvocato! Guardi, con dieci, quindici gocce a dire tanto, vedrà che si addormenta sereno.
– Allora una cosa provvisoria, tre-quattro settimane al massimo, va bene?
– Al mas-si-mo – sillabò il dottore sollevando a mezzo il braccio destro e facendolo poi planare in una stretta di mano virile.
Addormentarsi impastato, più sconfitto dell’insonnia; ma alle quattro, nel dormiveglia, nel brusio del silenzio del suo orecchio, ancora i rumori della ferrovia.
– Franco! Ahò, Franco, ciao!
Enzo, vicino di casa, compagno di elementari e medie, prima lucertola torturata, prima rivista porno, prima sigaretta, primo sabato pomeriggio a via del Corso. Poi Francesco era andato al liceo scientifico, una scommessa, mentre Enzo al perito tecnico. L’ha visto in pieno, inutile far finta di essere sordi.
– Ciao Enzo, come stai, eh?
– Bene Fra’, bene… stiamo qui che aspettiamo il terzo, pare un altro maschio… È parecchio che non ti vedo, com’è che sei scappato da Prati?
– Mah, una cosa provvisoria, solo per un po’.
– Certo certo, Franco, capisco benissimo, una cosa momentanea, so’ cose che capitano, poi passano, sì… Però si sta bene qua, eh? Senza il casino del centro, c’è ‘na pace!
– Insomma Enzì, si starebbe meglio senza la ferrovia.
– Ma quale ferrovia? Mi sa che ti sbagli, l’hanno chiuso questo tratto, sono 3 anni, dicono che ci devono fare i lavori ma chissà se riaprono… Mi sa che te sei sbagliato Franché!
– Ah, beh, sì, certo, sai, col televisore acceso m’era parso di sentirla, ieri sera, ma guardavo la tv, mi sarò sbagliato coi rumori.
– Ah beh, certo, te sei confuso con la tv, perché c’è ‘na pace, ‘n silenzio… Vabbé vado a aprire l’officina, m’ha fatto piacere vederti, ci si becca Fra’.
– Certo Enzo, ciao e saluta tutti a casa, eh?
Tira fuori le chiavi dello scooter dalla tasca. Una mano gli trema, con l’altra si accartoccia un orecchio. Alza gli occhi sgranati in direzione della ferrovia e annusa l’aria due volte, poi si rigira di scatto.
– Enzo! Senti un po’, non è che te la vuoi ancora comprare casa mia? Guarda, ti ci lascio dentro pure tutti i mobili.