Questo racconto l’ho composto a metà con Saverio Fattori. Lui aveva scritto un brano e me l'aveva inviato. Leggo, mi piace, e ci faccio un’aggiunta, così, senza un motivo. Rispedisco per mail e lui ci aggiunge un altro pezzo e me lo rimanda: finiamo per palleggiarci il racconto via mail, un pezzetto alla volta, tra dicembre 2003 e gennaio 2004. Alla fine è stato pubblicato nell’antologia “Copyleft”, curata da Girolamo Grammatico e pubblicata da un editore romano. La raccolta si può scaricare gratis dalla biblioleft de iQuindici.
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IN CARCERE POI LE NOTTI PASSAVANO LENTE
Di Monica Mazzitelli e Saverio Fattori
In carcere poi le notti passavano lente, goccia a goccia, prendevano il tuo sapore
…in carcere poi nella notte mi rannicchiavo e trovavo nel centro del mio corpo quel tepore che si raccoglieva denso tra le coperte nel nostro letto e ci sorprendeva nelle giornate di festa, quando si ignorava facili la sveglia
…in carcere poi hai combattuto e vinto mille battaglie nate disperate
battaglie nel mio cervello malato
le hai combattute così, candidamente, abbracciata al divanone rosa, i piedi in alto, verso le televendite, le dita salate e unte, sorprese dentro confezioni famiglia di patatine
le hai combattute così, semplicemente, da dietro un vetro antiproiettile che si inumidiva al contatto con le nostre mani e le nostre fronti chine
le hai combattute così con poche parole che richiamavano bisogni fisici e concreti lasciando il nostro amore al territorio del non-detto
oggi tutto s'imbroglia
in carcere poi il mio compare era un buon diavolo pure lui, pure lui teneva 'a guerra dint’ 'a capa. Savè mi diceva, 'e fimmine… Savè…'e fimmine… non riusciva ad aggiungere altro, piegava la testa e si batteva col palmo della mano sulla tempia come se dovesse far scendere dall'orecchio pensieri più lucidi o acqua di mare
in carcere poi il mio compare metteva fuori un sorriso marcio, si era già scordato il ragionamento col cervello bruciato di eroina
dal carcere poi sono uscito, trasferito all'ospedale per arrivare comodo alla fine certa , la pelle già rotta, la tosse che mi piegava, che non passava nemmeno a primavera, gli occhi di chi ha perso, gli altri occhi attorno, l'iride fermo nel bianco, senza dubbi, senza pietà per la malattia di chi se l'è cercata, si infilano aghi, si cercano vene, si regolano gocce, si guardano orologi, si auscultano toraci, si fanno cenni d'assenso, ci si consulta tra colleghi, si passa a un altro letto senza salutare, solo indicazioni alla caposala che un poco somiglia a tua madre, non ci crederai… anche i tuoi lineamenti seguivano la maschera di tua madre, anche se mitigati dalla dolcezza leggera, da un'età che dà illusioni, ancora per poco, mi dicevi, ancora per poco, mi dicevo e poi il conto è arrivato, ha suonato alla porta, pistole spianate, assetto antisommossa, giubbotti antiproiettile, tua madre aveva ragione, lasciami perdere, ovvero lascia che io sia un perdente.
Eravamo parecchi, una decina, che tornavamo dal centro e stavamo facendo le scale di uscita della metropolitana. Tu hai guardato quel gradino sbreccato e hai detto che non si poteva lasciare andare in malora le scale delle metro di periferia perché queste cose poi contagiano. Ti contagiano dentro e ti fanno pensare che non c’è futuro perché tanto è tutto rotto, anche dopo poco che l’hanno messo è già rotto, già periferia, già non gliene frega più un cazzo a nessuno di quelli dell’amministrazione comunale. Ecco, questa cosa hai detto. T’ho guardato, ti vedevo per la prima volta perché sei uno che sta sempre zitto, anche al muretto, sembravi più una coda di qualcuno che una persona viva. Il muto. Poi facevo tutti i giorni quel gradino rotto e ti pensavo, e sentivo il contagio della periferia condannata addosso, eri l’unico che poteva salvarmi.
La prima volta che siamo usciti è stato per entrare subito a casa tua. Tu sei rimasto a guardarmi seduto sullo sgabello della tua cucina, e non sembrava più di stare là perché la tua casa non aveva neanche mezzo di quei brutti oggetti delle case di periferia tipo piattini con scritto saluti da Capri, madonnedilourdes o quadretti finto sioux. Soprammobili pietre e rami contorti puliti dalla lingua rasposa del mare, ma soprattutto vuoto e bianco. Ti ho chiesto come t’era venuto in mente quel mondo così bello, come avevi fatto a ficcarlo nell’edilizia popolare ignorandola. Sei andato al bagno, hai preso un pettine e hai iniziato a passarmelo nei capelli, la cosa più giusta da fare.
Io non mi ero accorta di niente, è stata mia madre che ti ha visto al supermercato e mi ha detto guarda che quello si fa. Diceva che ti si leggeva in faccia la malattia, non l’eroina. Io non leggevo niente, mi bastava stare abbracciati in silenzio nel tuo mondo bianco. Calore e silenzio.
Poi quando ti hanno sbattuto dentro ho capito che anche tu eri stato contagiato dal fiato di peste del gradino sbreccato della metro, che ti saresti arreso. Quindi toccava a me salvarti, ma eri sempre più sottile. Il vetro antiproiettile era troppo grosso perché io riuscissi a mandarti la mia forza triste, e mi sembrava che ogni sabato tu diventassi sempre più piccolo e trasparente. Facevi finta di non vedermi indebolita, perdevi i denti, ti avevano anche occupato casa e non trovavo il coraggio di dirtelo. I tuoi legni di mare li avevano lasciati accanto al cassonetto.
Non è che ti ho tradito, noi stiamo sempre là in silenzio e tu mi pettini i capelli, ma da sola la periferia mi prende a ceffoni e mi spezza le ossa. Ho bisogno di uno che non veda i gradini rotti e che l’estate vada in macchina a Ostia e bestemmi perché non c’è il parcheggio. Perché a un certo punto tu avrai finito di squagliarti e di te resterà solo il bastoncino di legno con sopra scritto “Algida”.
Non ti avevo chiesto nulla. Continuavo a farmelo rimbalzare nel cervello come se bastasse a convincermi di una menzogna. Mi ero consegnato intero e senza condizioni, colpevolmente privo di pudori. Quella colpevole debolezza maschile che la tua generazione si era fatta bastare così imbottita di giustificazioni da rivista femminile. Tua madre, priva di buonismo intellettuale, veniva da ruvidi accoppiamenti e ruoli definiti, mica s'era fatta fregare dai miei modi goffi e impiccioni, cortesi e molli.
Quel grand'uomo del marito, buonanima, tuo padre, che i vermi ce lo rendano enzima dopo enzima. Quelli erano uomini.
Padre padrone cazzo cazzone padre padrone cazzo cazzone la filastrocca ti divertiva, occhi strizzati, viso intagliato di solchi, poco avvezzo a. Ridevi e ti univi, stridula, fuori tono. Raro mi rendessi comico, erano le malattie dell'anima ad unirci.
Ma non pensavo a te quella sera. Pensavo a me e allo schifo che faceva il gabbio, se ricordavo bene, e ricordavo bene. Bruttaria giù al baretto, indagini ambientali, indagini ambientali un cazzo, slavi infami, piuttosto. Due metri dalla porta di ingresso, giù nel sottoscala, quattro passi, porta di alluminio, cantina.
-Che armeggia giù di sotto?
-Catene ha detto. Catene da neve.
-Figlia deficiente e credulona, Santamadonna…
Fiato grosso, acido salito in gola, pacchetto stretto al fianco. Mi pareva di vederla la vecchia arricciare il naso e roteare le pupille, come se la sentisse. Cagna della narcotici maledetta.
Vasi di conserva e confetture, muffe in superficie. Le muffe possono avere effetti lisergici, me lo ripetevo facendo prendere fiato al cervello. Come sulle minerali. Può avere effetti diuretici. Mica è sicuro. Movimenti secchi ma scomposti. Un vaso di similfruttidibbosco era andato in frantumi, sangue dolce a granuli dappertutto.
-Tuttapposto lì di sotto?
–Un cazzo. Si Frà…
-Adesso scendo io.
–Tieni stretta la cagna che l'accoppo, giuro. Signora non si scomodi. Se mi facevo uno schizzo preventivo avrei gestito meglio la faccenda. Tutto sotto controllo.
Avete messo in discussione tutto senza trattenere nulla, hai un fidanzato forato e livido nelle braccia che si atteggia a poeta maledetto e cambia lavori come mutande. Ma perché non trattenete nulla, diomadonna. Figlia deficiente. E fa pure il cortese con me, citazioni&omaggi floreali. E ti vedesse tuo padre… vedesse me reggerti la parte. Vuoi gente rotta? La perfezione ti dà la nausea. Una di queste sere gli rompo la testa con un vaso, con questo vaso, te lo rompo davvero, i tiggì terranno per me. Diomadonna.
In carcere poi ripassavo la parte, cercavo di parlare al mio compare di te di tua madre di noi degli infami. Quello era preso dai suoi fantasmi, smetteva presto di seguirmi ma conosceva gli infami della piazzetta e ha avuto un sussulto solo allora.
– Savè stai accorto agli slavi e alle femmine. Ma più alle femmine.
-Troppo tardi. E la robba?
-‘A robba… con giudizio… da bravo cristiano.
-Ah ecco…
Poi riprendeva i voli col cervello, ripassava con l'indice i solchi sulle pareti, parole dal senso remoto a sfiorare le labbra. Frasi alle pareti sconce mai come la vita, conteggi sospesi del tempo bruciato al gabbio e smetteva di ascoltarmi. Poi un lampo negli occhi.
-A colpo sicuro gli sbirri?
-Pareva un film.
-Gli slavi?
-Eh… 'sti stronzi.
-Boh.
Non mi fotteva niente di quello che facevi. Per me potevi anche startene delle ore in giro senza manco un sms. Poi mi piombavi a casa a ore strane, mia madre alzava gli occhi al cielo. Non sapevo che facessi nella nostra cantina. La prima volta che sei sceso
-Ti accompagno?
-Non venire
-Ti accompagno!
-No, non venire, dai…
Se non dicevi quel “dai” scendevo con te, ma il “dai” ti aveva fatto da passaporto diplomatico senza data di scadenza. Non se n’è parlato più della cantina, quando scendevi mi chiudevo in bagno e non uscivo finché non sentivo il cigolio della porta. Solo dopo uscivo e facevamo finta che non fossi mai andato giù. Quando andavi via chiudevo la cantina a chiave come se dovessero uscirne i mostri, e mia madre “Guarda qua che paura che c’hai, adesso sì che c’hai paura, o no? Mi faresti ridere se non mi dessi ai nervi, cretina!”
Poi dopo volevi chiedermi scusa e mi mandavi una delle tue poesie che non si capiscono se non le leggi a voce alta, ma io mi vergognavo a dirtelo che non capivo le poesie, tu mi dicevi “ti è piaciuta?” e io “Sì” e basta. Poi mi hai mandato quella dell’Altra
“Ho bisogno di te, ma anche dell’altra
Senza te non c’è l’altra e senza l’altra non ci sei te
Ho bisogno delle vostre carezze incrociate
Merletti rotti, calci nel culo
Culo rotto, culo per buco”
E mi sono incazzata. Allora mi hai detto
-Perché mi dici che ti piacciono le mie poesie se non le capisci?
-Mi dispiace che non le capisco
-Se le leggi a alta voce le capisci
-Leggimela tu allora
Quando l’hai letta ho capito subito che era l’eroina. Però non so se era meglio o peggio. Ti ho detto andiamo da te perché fuori da casa tua era tutto così stressante, tutti volevano qualcosa. Anche tu volevi qualcosa, che io ti guarissi, ma io ero a mani nude.
Forse ce la potevamo fare se non ti beccavano. Tu dici sempre che non sarebbe cambiato un cazzo ma non è vero, fuori ti curavano meglio, non ti saresti iniziato a squagliare così in fretta.
Poi mi facevi incazzare quando parlavi male di mio padre. Non sai niente di mio padre, neanche io lo so, è morto troppo presto, ma tu dicevi cose che mi facevano piangere e mia madre quando chiedevo di lui mi diceva “Ma chi è ancora quello stronzo di Saverio che mette in testa queste cose? E tu perché lo lasci parlare, devi prenderlo a calci quando si mette in bocca il nome di tuo padre. Se c’era ancora lo cacciava via a cinghiate sulla schiena”.
Poi in carcere le ore passavano lente.
Sapevo della tua fedeltà ottusa e incrollabile, del tuo rifiuto alla vita, del tuo investimento a termine sulla mia morte. Ignoravi la mia intolleranza a fidanzate crocerossine inquadrate in chissà quale ordine monastico, eccitate dalla rinuncia e dalla sofferenza.
-Savè tieni le corna. Le donne fuori mica t'aspettano. Cornuto.
Il mio compare sdentato si limitava a pochi standard di conoscenza del genere umano.
-Magari. La mia donna è una suora, si cuoce nel dolore, le lacrime sono il suo orgasmo.
-Ma che dici? … non ti capisco. E pure le suore so’ zoccole. Le peggio zoccole, si ficcano di tutto tra le cosce. Io lo so, ne conosco di storie.
Ne conosceva sì, povera bestia sdentata. Non aveva mai avuto famiglia passando da orfanotrofi, minorili dritto dritto fino alla mia cella. Io avevo deciso di conoscere il carcere, di fottermi l'esistenza, questo dava dignità alla mia condizione. Lo sdentato non ne aveva conosciute altre, in assenza di alternative. La presunta libertà l'avrebbe confuso a morte.
Pensarti a letto con un altro mi avrebbe dato conforto, il conforto della sessualità disordinata, di una sega meritata. Cercavo di scacciare la tua immagine, la tua figura mesta china sull'ennesima lettera di tragico conforto, al disprezzo della guardia preposta alla lettura preventiva della corrispondenza. Sai ho smesso di aprirle, lascio allo sbirro tutto il gusto. Mi tolgono forza, mi riferisco a qualcosa di fisico. Le tue lettere lavorano sulle mie difese immunitarie e sulla sintesi delle proteine peggio della malattia. Coincidono con il peggioramento delle mie condizioni fisiche e con il riproporsi di fastidiosi sintomi. Mi riferisco alla tosse secca che smuove piccole quantità di sangue e all'ingrossamento ghiandolare. Mi riferisco a una perdita di massa magra. Non ci crederai ma occorre forza nella vita carceraria. Mi riferisco alla difesa personale, ai pasti insufficienti. Tua madre mi crede uno smidollato. Mi vedesse difendere il mio spazio vitale da queste faccedicazzo. Mi vedesse difendere lo sdentato e prenderle di seguito anche per lui. Vedesse che incassatore, il mio silenzio dignitoso.
Se questo è un uomo.
E penso a tuo padre, al vostro modello maschile, ai suoi silenzi virili, ai bisogni concreti che ha soddisfatto. Alla sua poltrona imbottita reliquia di ciò che è stato, di ciò che non poteva essere altro. Alla sua poltrona di pessimo gusto nel ventre molle della casa pietra a vista.
Al riposo catodico del guerriero, i suoi rimproveri preventivi con occhiate severe, direttive lasciate al territorio del non-detto gravido di sottintesi.
E penso a me alle mie imperfezioni che ti hanno confuso, ai miei difetti venduti al meglio, al mio parlarmi addosso, alle mie intransigenze che hai creduto di condividere.
Penso a quelli che ti hanno avuto prima di me. Esseri inermi e intercambiabili.
Ti rendo a loro, staccati dalla mia morte. Vedendoti resa al mondo perfino quella vipera di tua madre non avrà nulla da rinfacciarti. Lavorerà sul tempo e sulla rimozione.
Te ne stai andando prima. Sei pieno di merda. Sei pieno di te. E’ stata una scelta tua, potevi stare attento e invece hai voluto giocare. Mi prendi in giro perché ho fatto il classico e cerco di fare i miei esami all’università ma in realtà sei invidioso perché ti sei speso come fichés di plastica e poi toccherà a me ordinarti i fiori e la bara e neanche parli e non so come vuoi essere dopo morto, a fare vermi o cremato. Non te n’è mai fregato niente di com’eri da vivo figuriamoci da morto. Tocca a me, capito, questa cosa del funerale. Mia madre non ce la voglio, che fa il conto alla rovescia. Neanche la pietà per l’essere umano le è rimasta. E’ livida del rancore che ti amo e che mi spendo per te, odia vedermi mangiare patatine fritte sul divano mentre lascio squillare il cellulare. Pensavo che continuare a fare esami l’avrebbe tenuta a bada la strega ma no, vuole la mia anima, la rivuole molle e vuole che io gliela riporti in bocca come un cane. Remissiva e giudiziosa.
E un uomo coi coglioni, magari uno di quelli con la macchina grossa. Uno che non si fa inculare da siringhe infette e slavi.
Ma sei sicuro che erano loro? Non saranno stati i tuoi amici, che hanno voluto farti fuori perché in giro iniziavi a fare impressione con quelle guance scavate? Eri cattiva pubblicità per i clienti, servivi tutt’al più come esempio per vendere meglio pasticche e marocchino fatto col lucido da scarpe. Mai fumata quella merda.
Non so neanche chi viene al funerale, non so chi ti vuole salutare. Ma sono sicura che un sacco di gente che adesso manco ti saluta un salto al funerale alla fine ce lo fa. A vedere che sei veramente morto, spina nel fianco, grumo di sfiga evitato come una cacca per strada ma poi “era tanto buono ma alla fine senza i genitori poveretto è stato tanto sfortunato meglio così ora ha smesso di soffrire”. Dicono ‘soffrire’ ma pensano ‘spacciare’. La piazzetta fa diventare le nostre strade un piccolo villaggio, con le vecchie case pre-belliche costruite a mano dagli immigrati del sud e i palazzi dell’edilizia popolare che ci sputano sopra molliche delle tovaglie e sgocciolio di stracci stesi e vaffanculo mi tocca rifare il bucato porcatroia ora salgo e l’ammazzo quella stronza del terzo piano. Un paesello dove dettano legge le madri di famiglia.
Che ci stavi a fare in questo villaggio senza re magi e bambinello?
Si vedeva che ti avrebbe azzannato, masticato e poi rivomitato. Torni poltiglia al gabbio, di nuovo, ma questa volta è l’ultima, esci solo per morire in un letto con le lenzuola bianche, mal tollerato, ruvidamente.
I giorni bruciavano in fretta, due delusioni troppo vicine, la sinergia del nostro dolore. Tu avevi mollato il fidanzato compagno di banco, compagno di tutto, eravate cresciuti in fretta eravate cresciuti paralleli. Pensava di riempirti tutta, di essere tutto. Non era un cazzo. Avevate scoperto insieme i giochi dei grandi e questo l'avrebbe autorizzato a .
Un’opzione. Un vitalizio. Figurarsi. Sfigurarsi. Te l'eri scrollato appena in tempo per non incularti definitivamente l'esistenza. Prendo tempo. Devo pensare. Devo stare da sola. Pochi standards consolidati. Si era fatto muto, era rimasto solo, senza l'amica amante che avrebbe dovuto invecchiare con lui, solo a struggersi di cantautori italiani che a ogni parola scavavano il solco della ferita e parevano riferirsi alla sua situazione attuale? Le strofe… il ritornello… ma davvero non siamo unici nemmeno nel dolore? Qualcuno aveva parlato della sua storia a Venditti? De Andrè? Ciampi? Vecchioni? Graziani? Lolli? Guccini? ma checcazzo…
E avanti e indietro quelle cassette a consumarsi che quasi non giravano più e lo stereo si faceva caldo e lui ormai secco di lacrime, allevava cuccioli di pessimismo cosmico e depressione universale.
Per me la solita storia sbagliata cucita su misura per quelli della mia razza… la solita stronza con + tette che anima, chimica ormonale impazzita. Non ero il tipo giusto. Oddio… è tutto così banale e già visto… potrei morire in un giorno tiepido di primavera se avessi più coraggio.
E sei così bella che più bella non c'è
E sei così scema che più scema non c'è
E sei così bella e per te morirò
Ivan Graziani poteva capirmi, solo lui. Non mi ero suicidato in un giorno tiepido di primavera. Troppo nobile. In un giorno tiepido di primavera avevo solo capito che la roba sniffata era buttata, un sedativo per signore esaurite. Con l'ago era un fungo dolce tossico che scoppiava in testa. Volevo indietro tutta la roba sniffata e in breve il gioco soffice/tonico delle mammelle sacre ridotto a un ricordo muffito nella soffitta del cervello.
Autarchia. Mi ero ripreso me stesso. 'Fanculo.
E la vedevo la troia, cristo se la vedevo, ma avevo altre priorità, pericolosi sbattimenti, pedinamenti, alterchi, colluttazioni, collusioni, complicità, trame oscure, punte da film, mica roba per gli stronzetti che si portava in giro con le loro moto giapponesi e giubbotti da coglione …
Mi si erano infossati gli occhietti, ma le spalle larghe e il capello scomposto mi davano sostegno estetico. Un combattente per la vita anche se la battaglia in vero (in vena…) mica era necessaria, almeno a un'analisi superficiale. La retta flaccida della vita mia andava squassata con emozioni forti e definitive, mentre la tettona succhiava aperitivi leggermente alcolici e si occupava prevalentemente di accostare cromaticamente magliettine a scarpette.
X me i colori erano 2. Quindi dubbi pochi. Brown (sarebbe marrone) e bianca (nel senso di bianco).
Vincenzo era distrutto. I suoi occhi celestini da ciociaro triste sono rimasti spennellati di rosa pianto per quasi un anno dopo che l’ho lasciato. E’ che non ci poteva credere, dopo tutto quello che ci eravamo detti. Aveva ragione ma in realtà era sempre lui che parlava, io dicevo solo sì certo o al limite lo baciavo quando proprio le parole, anche solo queste due fottute paroline, non ne volevano veramente sapere di uscirmi di bocca.
Non so che cosa pensavano tutti quanti, la strega mia madre, la comare sua madre, l’autistico suo padre, un uomo un grugnito – se ha mai pensato qualcosa.
Come gli veniva in mente che io potessi essere felice ficcata dentro a quel fidanzamento in casa. La mattina insieme a scuola, il pomeriggio lui da me a studiare, spesso con qualche regalino, peluches che mi facevano urlare di rabbia, se solo fossi stata capace di urlare, di rabbia poi. Pensava che era possibile e bello quello stare insieme come due vecchi, a far l’amore tanto dolce. L’amore non è dolce, il sesso consuma e svuota, fa bruciato intorno. Non avevo tanta voglia di scopare e lui non osava lamentarsi. Male.
Non mi sentivo ispirata a fare sesso con uno che pretende di stordirti di carezzine, di farlo volendosi bene. Volendosi bene un cazzo. Non potevo portare ai piedi i suoi pantofoloni a forma di orsacchiotto regalo di Natale e improvvisamente sentirmi arrapata. Con gli orsacchiotti ai piedi non mi veniva, e mi chiedo come venisse a lui.
Era come vedermi in un film di lingua straniera: tutti parlano e sorridono, sono contenti, e io sorrido e penso “deve essere una bella cosa, una cosa divertente” però non capisco perché e mi appallo da morire. Sorrido ma dentro sbadiglio, le carezzine e gli orsacchiotti ai piedi. Cercavo di consumarli per poterli buttare via ma non si è mai visto delle pantofole più resistenti di quelle. Non capivo perché ero infelice, quando gli altri erano tutti così contenti. Piangevo con le pubblicità e anche con gli applausi del pubblico di Domenica In. La guardava mia madre in salone, non sapevo neanche di che applaudissero, ma come partiva l’applauso mi veniva il groppo in gola. Quelle domeniche a pranzo dai suoi con la famiglia allargata, in cui le zie ciociare facevano “ma guarda questa Frangesca come z’è arrodondada, ma ghe è già ‘nginda” e tutti ridevano. Incinta no però mi saliva lo stesso il vomito. Vincenzo sorrideva ma iniziava a impaurirsi delle mie espressioni da ebete, con le pupille allargate fuori di testa. E allora ancora più carezzine e peluches, io sempre più in silenzio.
Nei suoi occhi c’era ormai quello sguardo da cane bastonato che si aspetta di prenderne ancora. Non potevo picchiarlo perché era troppo fuori luogo quindi ho iniziato a punirlo di essermi così devoto mettendogli le corna. Facevo qualche pompino in giro, incazzata, a fica asciutta. Quelli a cui li facevo non capivano perché. Mi conoscevano, sapevano bene chi ero e che storia avevo, ma godevano incassando zitti. Erano tutti sposati, li ho scelti bene. Nessun uomo sposato rifiuta di farsi fare un pompino perché in genere le mogli non li fanno più quindi loro si sentono giustificati a prenderselo dalla prima che glielo fa, meglio ancora se gratis. Non l’avrebbero detto in giro anzi, sarebbero rimasti con la paura che lo dicessi io, quando incontravo le loro mogli al supermercato, che li ricattassi. Ma per me potevano dormire tranquilli, ciucciavo per rabbia e per noia, per dire VITA e FUGA e perché i tendini di braccia e gambe la notte tiravano a morte e mi svegliavo coi crampi mordendo il cuscino.
Stavo aspettando te, dopo il gradino della metro è stato tutto molto chiaro. Ho guardato un altro paio di giorni il film in lingua straniera e poi ho scosso la testa. Il ricordo di quel movimento mi è rimasto incollato dentro: ho scosso la testa e Vincenzo mi ha guardata con gli occhi pieni di paura. Ha detto “no a che?” era mezz’ora che eravamo zitti. “No e basta, a tutto. Senti Vincenzo, grazie.” E mi sembrava di essere stata chiarissima. Gli avevo detto No Grazie doveva essere sufficiente. E invece no, certo, che poteva finire così? Mi sono prestata a giorni di pianti, spiegazioni da repertorio classico, ho anche fatto finta che ci stavamo prendendo una pausa, che forse ci eravamo frequentati troppo. Lui diceva sono sicuro che è solo un momento passeggero come succede a tutte le coppie. Ma non era sicuro di un cazzo e il labbro gli tremava come avrebbe tremato a uno dei coniglietti di pelo che mi aveva regalato. Io ho fatto finta di essere responsabile&consapevole&matura perché mi scocciava che andasse così in pezzi davanti a me, invece di farmi pena mi faceva paura così rotto. Mi sono detta hai fatto un casino. Mi sono detta oddio questo si ammazza. Poi quando sono venuta su a casa tua e mi hai pettinato i capelli ho pensato no non si ammazza, poi gli passa.
La stronza mi vedeva, cioè, si girava dall'altra parte, ma il moto rotatorio del capo fissava la mia immagine per un attimo nel suo cervello pigro e adulterato dai ragionamenti dei suoi nuovi conoscenti e dai cinque gradi scarsi delle bevande che sorbiva.. Mi pare di sentirla.
Ma come è messo? Ma si vede? Ma con chi cazzo gira?
E' completamente fatto… Ma come ho fatto a stare con quel tipo… mi pare davvero un estraneo… carino però con gli zigomi così in evidenza e il capello spettinato.
E lo squarcio nel giubbotto di pelle… non lo ricordo… una coltellata tra tossici?… un regolamento tra spacciatori?
Sarà il caso di farmi qualche esame del sangue?
E io apposta le gravitavo attorno, da fargliela pesare, come se gli altri sapessero che farsene del nostro dolore, figurarsi la stronza, con tutto quel sangue e oxigeno a gravitare nella zona mammaria lasciando così sguarniti i piani alti…
Da parte mia potevo solo odiarla, senza giustificazioni, odiarla per salvarmi il cervello, per consegnarlo integro, depurato di depressione e adrenalina, alle droghe sedative.
Da parte mia avevo un piano, una programmazione della gestione del dolore.
Un piano triennale.
-Vita ai margini sociali, ma con la pretesa (assurda) di essere comunque molto cool, nella mia deriva esistenziale.
-Resa incondizionata alla disperazione, con punte al basso tutte da definire.
-Rinascita, restituito ai vivi ferito ma depurato, capace di impennate qualitative e gratificazioni (nemmeno queste definite nei dettagli) impensabili per chi aveva sempre rigato dritto nella mediocrità.
In un pomeriggio primaverile avrei rivisto la stronza con le mani a stringere qualcosa, non calici nè cazzi, ma carrozzine o/e carrelli dell’iper.
E qua i punti del piano triennale si confondevano… avrei dovuto ignorarla, ignorare l’inizio di doppio mento, la faccia da coglione che la affiancava e pagava alla cassa con la carta di credito, puntarla dritto in viso senza rivolgerle la parola…?
Fingere che il tempo tutto sana, abbracciarla e rivestirla di banalità, qualche aneddoto, un buffetto al contenuto della carrozzina e un’occhiata alla spesa concedendosi qualche battuta sulla dietetica biologica.
Prenderla a calci, pugni, trattenuto a stento da estranei, gridarle che la sua ferita sanguinava ancora anche se il suo viso da anni non lo ricordavo, anche sforzandomi….
Mi stava quasi per sbattere fuori di casa la strega. Vincenzo le telefonava e piangeva al telefono. Lei per la situazione sfoggiava atteggiamenti materni e premurosi che non aveva mai indossato in casa con me o Silvana, con il premuroso e materno intento di farmi sentire una merda. Spari a salve, me ne stavo con te rannicchiata nella casa bianca e avrebbe anche potuto farmi le valigie, le avrei prese e portate a casa tua e non mi avrebbe visto più. Per questo non le ha fatte mai. Se me andavo di casa definitivamente non avrebbe avuto più nessuno da provare a manipolare. Silvana sposata aveva comprato casa a Torvaianica per non averla tra le palle.
Io non lo so se un giorno mi sposo. Intanto aspetto la chiesa per il tuo funerale. Sarebbe meglio non farlo, far finta di niente come facciamo io e te. Penso sempre a chiederti come vuoi la bara ma mi manca il coraggio di domandartelo e mi manca il coraggio di fare ancora finta che forse puoi guarire, che tiri vivo fino al giorno un cui ci sarà una cura. Non ce la fai no, non posso prenderti per il culo. Quindi ci mancano gli argomenti. Il nostro mondo è diventato un mondo delle cose al passato, tutt’al più il presente, ma fingiamo che il futuro non ci sia, come se mancassero anche le parole per definirlo. Il nostro mondo è senza progetti, e senza progetti non sappiamo quasi più che dirci. Ti leggo le tue poesie, dici che eri diverso ma non approfondiamo. Ecco, non approfondiamo più nessun argomento, le parole diventano un passatempo per non temere i silenzi, ma in realtà continuiamo a stare bene io e te, ci prende ancora la felicità, siamo ancora entusiasti di noi. Ci sembra ancora un miracolo speciale esserci incontrati, un regalo ammiccante del destino.
Non te lo posso dire ma ho paura degli ospedali. Quell’odore di malattia mi fa venire una vertigine di paura al cervello, e mentre cammino per i corridoi mi sento di vetro, come se potessi svenire e frantumarmi in mille pezzi se cado o qualcuno mi urta.
Non voglio toccare i malati, non voglio parlare con i malati, la condivisione del dolore è un'ammissione della mia malattia. Segnerebbe un punto di non ritorno. L'accettazione muta del decadimento fisico. Mi limito a registrare i colpi di tosse, rifiutando la mia immagine (probabilmente) consunta. Percorro con l'indice le nuove escrescenze sulla pelle, gioco collegandole come fossero lettere, misteriosi codici da decifrare che svelano arcani di cui non mi fotte più nulla. Gioco col cervello, mica faccio come certi coglioni a fiaccarsi di flessioni e addominali per convincere la malattia che è lei che si sbaglia, che ha sbagliato persona di sicuro.
Cazzo. Globuli bianchi un cazzo. Faccio 80 flessioni, quattro serie da venti e duecento flessioni. Linfociti un cazzo!
Questo si raccontano mentre rantolano col fiato corto e sudano. Poveri deficienti… che pena mi fanno…
Mi ripugnano tutti, malati animati da positivismo e forza d'animo, dame di carità in divisa d'ordinanza, corpi devastati allo stato larvale. Fosse per me tornerei a crepare dentro… l'avvocatino questo proprio non se lo vuole sentire dire, dice che ha tanto lavorato sul mio caso. Mi ha portato anche articoli di giornale, solo edizioni regionali, farglielo notare sarebbe stato di cattivo gusto. I medici quelli si, in questo reparto non si concedono ipocrisie né mediazioni, danno indicazioni secche, sono pagati per agire, per sbagliare, ma sempre in efficienza, in culo al fatalismo.
Prescrivono cure e la loro completa mancanza di umanità mi fa sentire ancora una volta essere umano. Farei lo stesso dall'altra parte del capezzale.
Vado al supermercato per fare la spesa quando non ce la faccio a fare nient’altro perché mi sembra di usare il tempo in modo utile e quindi tengo a bada l’ansia. Ma poi quando sto lì l’ansia mi aumenta e mi sembra tempo buttato e rubato a me stessa, e allora scelgo la cassa di Ivana, non so perché ti fosse così simpatica Ivana quando lavoravi lì, lei così efficiente, sorridente, non ha mai le mestruazioni Ivana. E’ talmente veloce a fare cassa che mi viene l’ansia di prestazione, non trovo la tessera, non trovo il portafoglio, non trovo i soldi grandi e neppure gli spicci, mi dimentico le buste, mi dimentico l’acqua sul carrello, sono lenta a caricare i sacchetti, sudo, mi affanno. Lei sempre sorridente ma sempre così svelta, diventa una gara, devo anticiparla, far vedere a quelli in fila dopo di me che sono all’altezza della situazione ma alla fine qualcosa va sempre storto, faccio cadere le monete dal plexiglass o qualsiasi altra cosa succede inevitabilmente. Vince sempre Ivana.
L’altro giorno, quando non riuscivi a parlare, sono andata a fare la spesa e mentre buttavo cose nel carrello hanno messo “Mi ritorni in mente” alla radio. Non sanno quello che fanno. Potrei uccidermi per molto meno, ma soprattutto con mi ritorni in mente posso farlo subito, senza neanche rendermi conto, come fosse un riflesso condizionato. Sono corsa da Ivana, alla sua cassa efficiente ho smesso di sentire la radio. La cosa brutta è che per venire da te devo prendere la metro, che ha quell’odore di polvere ammuffita. Tutti brutti odori, quello della metro, quello dell’ospedale. Però gli odori buoni in questi giorni mi fanno piangere. Odori tipo erba tagliata o pane caldo sono fonte di tristezza per me.
Non cucino quasi più. Ceno col bustone delle patatine fritte. Al limite mi condisco due puntarelle perché piacciono anche te.
-Savè tieni le corna!
-Magari!
Dicevo io.
-E che sarà mai! Mica è il peggiore dei mali. I sentimenti si raffreddano, sedimentano, la gelosia e il dolore sono cose belle, che ti credi.
Immagino che non capisse, il mio compagno di cella, i miei ragionamenti troppo effeminati e molli. Probabilmente aveva conosciuto solo prostitute e barbone ai limiti dell'umanità riconosciuta in quanto tale. Sesso rubato o acquistato tra un internamento e l'altro. Faceva riferimenti volgari sulle donne e sul sesso in generale, i termini non avevano più nessuna corrispondenza alla vita reale. Si masturbava, questo si, molto di frequente, il letto a castello traballava di sopra, ma era un esercizio fine a sé stesso. Surrogato non di amore ma del nulla. Io non avevo mai avuto confidenza con l'autoerotismo, mi detestavo abbastanza per evitare un amore così autarchico.
Eppure ci provavo, con risultati deludenti, anche il medico del carcere consigliava di non sospendere le eiaculazioni, astenendosi però da rapporti omosessuali un uomo doveva rimanere tale. Le seghe mi avrebbero fatto rimanere uomo vero, mantenendo un equilibrio ormonale efficiente. Deficiente di un medico. Da bimbo mi dicevano che se mi toccavo non sarei mai diventato adulto completo. Da adulto completo mi consigliavano tale pratica. Cercavo di pensare alla stronza che ti aveva preceduto e quasi ci riuscivo ad avere un'erezione completa. Pensavo a rapporti per nulla consenzienti. Sesso anale per lo più. Non mi ero reso conto che la mancanza di vigore sessuale aveva direttamente a che fare col mio decadimento fisico. All'affacciarsi della malattia.
Devi essere agli sgoccioli, inizi a capire che non c’è storia. Appassito quasi del tutto. Arrivo da te sperando da lontano di vedere ancora tutti i tubini attaccati, ho paura che non chiamino se muori. Facciamo ancora un po’ finta così possiamo ancora scherzare ma inizia a diventare grottesco. Non ti dico più nulla. Anche il passato è sparito dopo il futuro, adesso c’è solo il presente. Ti racconto piccoli fatti solo per avere parole. Rimane quasi solo il bastoncino del gelato.
No, non ti passa l'intera vita davanti in pochi istanti.
Nessun bagliore biancastro.
Nessun terrore dell'ignoto.
Nessuna stanchezza.
Nessuna voglia di arrendersi.
Nessuna pacificazione.
Nessun odio per l'infermiera che mi chiuderà le palpebre dopo aver sostituito un pitale, è il suo lavoro.
Nessuna maledizione per il giovane medico, gioca con i termini tecnici, non è colpevole.
Nessuna sensazione sgradevole legata alle occasioni perdute, al tempo perso, alle cose non dette.
Nessuna curiosità per come sarebbero andate le cose.
Senza.
Senza di me.
Senza di noi.
Nonostante.
Tutto.
Niente.
In chiesa davo ordini come una mogliettina severa e efficiente, ero incazzata, non ho pianto, ti sarei piaciuta. Giocavo a fare la segretaria del defunto, ti avrebbe divertito.
La strega è venuta. Non ha messo il nero, non ha portato fiori, con la bocca cucita, mi chiedo chi l’abbia obbligata, forse voleva solo essere sicura che fossi veramente morto. In ingresso troverà le mia valige fatte.
Gli amici tuoi sembravano di marmo, più morti di te nella bara, con gli occhi fissi e la scopa nel culo.
La tua ex tettona aveva pantalone nero e maglioncino rosa confetto, che sottolineava il pancione, credo sia almeno al sesto mese. È venuta da sola in chiesa ma il marito l’aspettava fuori in macchina, con la faccia interrogativa. Ho sentivo che diceva a una sua amica che le avevi mandato un sms pochi giorni fa, che ti aveva dato una risposta cretina e si sentiva in colpa, che non sapeva che non pensava fossi a questo punto.
Sempre vendicativo, il tuo ultimo sforzo di contare qualcosa.