Seduto nella fila di fronte a me un bell’uomo sui quarant’anni. Le falangi tatuate con lettere nere, anelli d’argento su ogni dito, bracciali e orecchini scuri, banda da polso di pelle, occhi chiarissimi sotto ciglia dorate, capelli rasati sui lati con una lunghissima coda di cavallo bionda e riccia che gli arriva quasi al fondoschiena, stivali corti, jeans neri su giacca grigia con sotto una camicia scura. E come colletto un collarino ecclesiastico.
Si chiama Markus, ed è un prete di strada: la sua parrocchia è per le vie, di notte; la sua missione aiutare i derelitti e gli sfruttati. Soprattutto prostitute. In Svezia la Chiesa protestante lavora spesso così, a sporcarsi le mani, come Cristo dai lebbrosi.
Siamo a una conferenza sulla prostituzione a Göteborg, in Svezia. Molte organizzazioni non governative (cristiane e laiche), psicologi, antropologi, rappresentanti politici e istituzionali, un’alta magistrata che ha lavorato nell’ambito della prostituzione per decenni, assistenti sociali, e la co-autrice di un saggio “Droga visiva” dedicato alla pornografia. Ospite dalla Moldavia Vladimir Ubeivolc, dell’organizzazione “Beginning of life”.
Otto ore volate in un soffio con i maggiori esperti sull’argomento, e un’unica voce per dire che la prostituzione è lo sfruttamento (più o meno organizzato) del corpo di alcune giovani donne rese vulnerabili dalla povertà o − nei rari casi di prostituzione “volontaria” – come risultato degli abusi sessuali subiti da bambine. L’acquisto del sesso non è una questione di soddisfacimento erotico per chi lo compra, ma di un bisogno di potere. Ciò che si acquista è il diritto ad (ab)usare il corpo di una persona, e l’eccitazione nasce dal piacere di poterne disporre senza ricevere un diniego, dal piacere di soggiogare e costringere.
Come ho già scritto a proposito del magnifico saggio del poliziotto Simon Häggström “Skuggans lag” [La legge dell’ombra] in Svezia già dal 1999 la prostituzione è reato per chi la sfrutta e per chi paga la prestazione, ma non per la persona il cui corpo viene comprato (che sia lei stessa a vendersi o, come molto più spesso accade, attraverso qualcuno che la sfrutta), ché la prostituta è considerata vittima di un abuso sessuale anche se all’apparenza “consenziente”. Viene infatti considerato che le donne coinvolte in questa pratica ne siano o costrette, o vittime psichiche. Nel primo caso attraverso una struttura di schiavismo e ricatto (che sia fisico o morale) da parte di un lenone; oppure per necessità economica, come spesso accade per esempio per donne straniere che vivono nella loro patria d’origine sotto la soglia della sopravvivenza. Per le vittime psichiche (che poi spesso son le stesse che finiscono nella morsa del ricatto) si tratta quasi sempre di donne che hanno subito un abuso sessuale durante l’infanzia o la prima adolescenza, soprattutto nel caso in cui l’abuso è avvenuto in famiglia. L’esperienza di un abuso sessuale da bambine (che sia esercitato con un atto violento o – più spesso – come manipolazione psichica) spezza spesso in modo indelebile la sacralità del proprio corpo, cancellando il senso del proprio valore e soprattutto della propria integrità. Una bambina abusata perde il confine corporeo e il lercio che l’ha lambita le resta dentro come una colpa che non ha avuto gli strumenti per restituire al mittente. Nei casi più pesanti e fragili difficilmente una donna trova in sé gli strumenti per cicatrizzare questo tipo di esperienze e quindi spesso il risultato è quello di mettere in atto un meccanismo di autodifesa paradossale e autolesionista: esporsi, offrirsi sessualmente, fino a mettere in vendita il proprio corpo. Dietro ogni donna molto ammiccante e “voluttuosa”, anche al punto di prostituirsi, c’è spesso una donna abusata e molto ferita, che mette in atto questi comportamenti per ottenere due risultati emotivi. Il primo è quello aleatorio dell’illusione del controllo sugli uomini, un riscatto di potere (“mi compri perché pur di avermi sei disposto anche a pagare” = “ho potere su di te” = “posso gestirti, al contrario di quella sensazione mostruosa di abuso, impotenza e sottomissione che ho vissuto da bambina”). Il secondo, ancora più straziante, è che le bambine abusate (e in generale tutti i bambini che subiscono maltrattamenti) tendono a dare la colpa a sé stessi di quanto accade, nell’irrinunciabile fetida convinzione di esserselo meritato. Allora in questo senso prostituirsi diventa un modo per continuare a punirsi, in una perversa spirale di svalutazione ed espiazione.
L’approccio usato quindi da tutte le organizzazioni che hanno a che fare con la prostituzione, tra cui Talita e Göteborgs Räddningsmission (che hanno di recente aperto due case-rifugio a Göteborg) è quello di dare un appoggio non solo concreto (sostegno legale, materiale e finanziario) alla ragazze vittime dello schiavismo sessuale, ma anche un supporto psicologico per aiutarle quando serve a uscire dagli atteggiamenti autolesionisti provocati dal trauma degli abusi sessuali infantili.
La prostituta che gode di un atto sessuale a pagamento è una finzione necessaria a chetare l’eventuale remora morale che l’uomo vive nel fare utilizzo di una prestazione acquistata. Perché nessuno può essere davvero così ingenuo da non sapere che una donna che vende sesso non lo fa per piacere, e quando lo finge è perché il cliente si sbrighi, o/e per evitare che le faccia del male; o lui o chi la mette in vendita. Non c’è troia che sia porca, ma solo donne violate che si difendono, durante le 15-20 volte al giorno in cui sono ricettacolo di stupro prezzolato.
Cominciamo da qui, dalle parole. Cominciamo a non dire MAI, ma proprio MAI PIÙ, “porca puttana” quando dobbiamo sfogarci. Usiamo qualche altra espressione, ma non facciamoci complici di un sistema che compone una delle tre più produttive teste del crimine organizzato mondiale: il traffico di essere umani a scopo sessuale. Le altre due sono armi e droga, e per queste si mettono in moto risorse economiche e umane pazzesche: polizia e magistratura di tutto il mondo sorvegliano e cercano in mille sottili modi di contrastare questi mercati; ma la prostituzione, a detta di chi si occupa al 100% di questa piaga, viene combattuta solo quando ricade nella stessa rete criminale, oppure lo si fa con la mano sinistra: poche risorse umane, pochi investimenti di indagine. Eppure dovrebbe avere molta più attenzione perché tra le tre è quella che ha più margine di guadagno: armi e droga una volta venduti smettono di generare profitto, una donna la si può vendere centinaia di volte finché non è distrutta, ovvero intorno ai 22-23 anni.
E soprattutto, soprattutto, BASTA usare qualsiasi sinonimo o allusione a una prostituta per offendere una donna. Da troia a cagna, da puttana [con i relativi figli di, ovviamente] a zoccola, mai più, MAI PIÙ usare questi epiteti come insulto. Non solo perché sono un insulto a una donna vittima di stupro, e usandoli ci rendiamoci complici dello stesso sfruttamento che ha come base l’odio per la donna; ma anche perché così facendo confermiamo un sistema patriarcale basato sulla morale maschilista che vuole che una donna si insulti come “troia” mentre a un uomo si dà l’epiteto di “stronzo”. E perché dovrebbe poi essere insultata e in ultima analisi punita, quand’anche fosse, una prostituta? Ah già! Perché “gode nell’atto sessuale”. Ci rendiamo conto quanti millenni di laidezza sociale si annidino in questa costruzione semantica?
Personalmente, la mia pazienza è esaurita. Da oggi, 8 marzo 2017, qualsiasi persona che esprima un qualsivoglia commento o apostrofi una donna con questi termini riceverà da me una precisa presa di distanza. Con compatimento se si tratta di un uomo, con irritazione se si tratta di una donna.
Perché ciò che un uomo può non arrivare a capire (anche per la sua alterità fisiologica e sessuale), una donna deve comprenderlo per forza.
Questa immagine è stata presa da una sessione foto/video effettuata per un progetto di videoistallazione chiamato "Il male nello sguardo" che completerò in tempi brevi. Nessun corpo di prostituta è stato ultilizzato per questa immagine. Dietro la macchina da presa per questo take Cinzia Bolognini.