Edward Hopper: la fredda luce delle solitudini

Edward Hopper: la fredda luce delle solitudini
Roma, Fondazione Roma Museo fino al 13 GIUGNO 2010

La prima mostra dedicata a Hopper in Italia si fa perdonare l’assenza del suo quadro più famoso, “Nighthawks” (“Nottambuli”, 1942) ricostruendolo a dimensione reale nella prima sala del museo: idea geniale, che procura un brivido intenso nel visitatore e che rende – forse neanche in modo intenzionale o consapevole – una verità che affiora da questa mostra in modo molto più forte che visitando il Whitney Museum di New York, dove sono raccolte la maggior parte delle sue opere.La verità di cui si parla è che le persone raffigurate da Hopper sono in effetti dei pupazzi, delle maschere, non delle “persone”. La più importante affermazione in tal senso viene da uno dei suoi quadri parigini “Soir bleu” (“Sera blu”) del 1914 dove i personaggi più esposti alla luce sono un clown niveo e una donna il cui viso è quasi una maschera, non solo per i colori eccessivi del pallore e delle guance, ma anche per la spigolosità dei suoi tratti. Questa composizione è in effetti tra le più interessanti e perturbanti della mostra, e il tema della maschera al posto del viso continua a venire declinato nelle figure prevalentemente femminili scelte per questa esposizione. Una su tutte “Morning sun” (“Sole mattutino”) del 1952 dove il viso della modella è ancora più abbozzato del solito, con gli occhi che sono due buchi neri. Perché? È utile pensare alla storia personale del pittore per poter dare un’interpretazione: la sua unica modella nel corso degli anni è sempre stata sua moglie Jo Nevison, che è stata al suo fianco tutta la vita. I due hanno condiviso spazi angusti nello studio di Washington Square nel Village di Manhattan, in uno stato di isolamento quasi totale. In una dimensione simbiotica lui l’ha tiranneggiata in molti modi, anche maltrattandola fisicamente, cosa alla quale lei non si è sottratta in un rapporto vittima-carnefice dagli aspetti come sempre sfumati e complessi. Il risultato finale per la Nevison fu comunque quello che dopo essere stata una pittrice di un certo successo, prima di conoscere il marito, non è stata poi più in grado di esprimere artisticamente se stessa in modo soddisfacente, risucchiata in una quotidianità di isolamento, solitudine e violenza verbale e fisica. Tutto questo è fortemente, violentemente documentato in questa mostra italiana: il corpo femminile rappresentato qui, quando non è finto e impagliato – come nei dipinti in cui la donna è una bambola senza personalità come in “Nighthawks” o “Summertime”, o quando non gli si negano le emozioni mettendogli sopra una maschera come in “Morning sun” – è un corpo piegato, abusato, aggredito, sconfitto: sofferente, solo, inutile, dolente come in “Summer Interior” (“Interno estivo”).
A questa debolezza sentimentale disperata l’unica risposta può essere quella di disumanizzare del tutto l’oggetto della rappresentazione. Non basta rendere le persone dei manichini statici, ma bisogna fare di più: eliminarli del tutto dal quadro; e infatti sono i paesaggi di Hopper che ci fanno sentire meno oppressi, persino le immagini con il fondo industriale, cioè la rappresentazione della svolta “meccanica” di fine ‘800 che gli statunitensi chiamano “la macchina nel giardino”. Finanche questi paesaggi sono più sostenibili delle figure umane. Ad esempio in “Dawn in Pennsylvania” (“Alba in Pennsylvania”) per quanto solitaria e triste sia l’immagine, con le fabbriche sullo sfondo, il fuoco della rappresentazione è comunque la luce, la bellezza del colore per come ci viene restituito dalla rifrazione ottica. Come se Hopper fosse in procinto di affogare risucchiato da un gorgo, e insieme a lui noi vedessimo la luce che lo riporta – ci riporta – a galla. Luce pura, intera: tecnicamente rappresentata in modo molto più vicino alla – splendida – pennellata macchiaiola che all’impressionismo, o men che meno al puntinismo. Hopper passa immune tra fauvismo, cubismo e astrattismo, si disinteressa a ciò che in Europa rivoluziona in modo indelebile l’arte figurativa moderna, e decide di rappresentare in modo verista la sua realtà. E la verità per lui non si può che raffigurare attraverso il colore, soprattutto nel contrasto tra la luce e il buio. Il colore deve essere puro, cromaticamente perfetto, e l’attenzione di chi guarda deve essere sul punto luminescente, e consolatorio, dell’immagine. Nel bozzetto di “Dawn in Pennsylvania”, ad esempio, sapientemente esposto in questa mostra, vediamo che nel punto di massima luce del quadro (il muro interno della pensilina), c’era in realtà un carrello appoggiato: Hopper nella versione finale l’ha eliminato, dando un’integrità lattea alla figura.
La luce di Hopper entra spesso da tre quarti in alto destra e si rifrange in un punto a un terzo in basso a sinistra, come nella “Vocazione di San Matteo” di Caravaggio. Il posizionamento di questa proiezione della luce forse si spiega con il tipo di esposizione all’interno del suo studio di Washington Square, ma è curioso che non valga solo per le tele di interni, ma anche per quelle dedicate agli esterni come molti degli splendidi paesaggi di Truro e Cape Cod esposti in questa mostra, uno fra tutti quello della locandina; ma anche in uno dei ritratti più interessanti esposti: “South Carolina Morning” (“Mattino nel South Carolina”). E vale anche per il celeberrimo quadro “House by the railroad” (“Casa vicino alla ferrovia”) a cui Hitchcock si ispirò per il “Bates Motel” di Psycho (purtroppo recentemente distrutta da un incendio negli studi della Universal di Los Angeles).
Una mostra decisamente interessante, che offre aspetti molto neri del pittore: Hopper pare essere consolato solo dall’utilizzo della “macchia” del colore in un mondo immobile, poco umano, pieno di silenzio e solitudine esistenziale, ma l’unico forse in grado di offrire un appiglio.

Monica Mazzitelli

Slowcult