Che è anche, inutile dirlo, la mia preferita. Grazia a Luciano Ummarino di Loop (in edicola dal 29 gennaio 2010) che non mi ha posto nessun limite per scrivere questa ultima recensione. La amo molto, spero piaccia anche a voi.
Altai è un romanzo affettuoso e dissimulato. Non c’è bisogno di aver letto nulla di Wu Ming per farsi avviluppare da questo libro, ma chi conosce la narrativa del collettivo bolognese si emozionerà a raccogliere tutte le mollichelle di pane che si trovano nella narrazione. Ma non si pensi a suggestioni speculari a “Q”, per quanto ce ne siano molte: questo lavoro ricuce e abbraccia tutti i romanzi precedenti, collettivi o solisti, e celebra anche il Luther Blissett Project (“I favori agli amici e le beffe ai potenti”, si dice a pagina 209). Quindi nessuna strizzata d’occhio ruffiana al vecchio lettore di “Q”, ma elementi che gli danno un po’ di gomito con un senso affettuoso di essere, scrittori e lettori, entrambi comunque parti di una produzione letteraria che va ben oltre l’essere buona narrativa: le allusioni paiono un tributo al senso di “comunità” virtuale e virtuosa che da anni LBP prima e Wu Ming Foundation poi (soprattutto attraverso la newsletter Giap) ha creato intorno a queste migliaia di pagine prodotte dal collettivo bolognese comprate in libreria o scaricate gratis in rete. Trovi il solito sbirro Rizzi, il calcio al cane, la foce del Po, la fuga e il fuoco: ma inutile fare un elenco, ognuno con la sua memoria sorriderà nei passaggi che ricorda, se vuole, o andrà dritto per la sua trama.
Questo prendere in mano, riassumere una carriera di scrittura, abbracciare, spingere fuori a noi lettori, è una somma tirata: quella dell’uscita di WM 3 dal collettivo, l’estate del 2008; un congedo che ringrazia di ciò che è stato, ripercorre il cammino, si volta indietro un’ultima volta e poi chiude finalmente la porta. Affettuoso, dissimulato.
Un romanzo che ti porta alla fine per farti capire che c’è ineluttabilità ma anche sempre inizio: un bimbo abbandonato sulle rovine di una città espugnata e fumante si salva perché adottato da un ensemble di quattro persone che vivono insieme per scelta, non per legami familiari codificati: un gruppo di età, religione e genere misti che si è scelto per rispetto, affinità, solidarietà. Sono loro quattro, i quattro (narratori) rimasti in groppa ai loro dromedari [qui si può mettere la nuova immagine di WM che ha sostituito quella dei 5 ballerini senza volto], che devono custodire il futuro di quel bambino, farlo crescere con la fiducia che un cambiamento sia possibile, passargli il testimone e affidargli le loro storie: lo aspettiamo quel bambino, in un altro romanzo, siamo certi che salterà fuori da quelle magnifiche pagine per diventare il protagonista di una nuova storia che il collettivo sentirà l’urgenza di raccontare. Perché questo bimbo è il romanzo: la fiducia nel futuro è fiducia nelle storie che danno consapevolezza, entusiasmo, coraggio, modelli. È il vecchio concetto che Wu Ming da sempre propone e rafforza: la mitopoiesi, le storie che fondano la realtà e indicano una strada, una sulle spalle dell’altra come musicanti di Brema: dall’asino al gallo, uno in groppa all’altro, i quattro animali che i padroni vogliono morti (torna ancora il numero quattro) si uniscono e dalla loro solidarietà nasce il coraggio di combattere. È il senso dei sensi della poetica wuminghiana, il cuore del New Italian Epic.
E ora la trama: i fatti narrati avvengono quindici anni dopo l’ultima pagina di “Q”, e la scena si sposta nell’Impero d’Oriente: Selim II sta per affrontare la battaglia di Lepanto e il sole comincia a tramontare su quella parte di Mediterraneo: la Serenissima preme, è tempo di riportare l’ago del potere verso ovest. Il protagonista Emanuele De Zante/Manuel Cardoso, agente segreto mezzo ebreo e mezzo gentile, è costretto a fuggire dalla grassa e assertiva Venezia per dare il suo contributo alla causa di un potente ebreo nemico della Serenissima – Giuseppe Nasi – causa ovviamente perdente ma di un largo seducente respiro. E la sua fuga da esule molto racconta, anche se ripercorsa in senso inverso (cioè dall’Italia a Durazzo, e poi fino alla capitale dell’Impero Ottomano), quella dei diseredati del mondo che bussano alle nostre presuntuose e respingerti porte. Ne vediamo persino i volti nello sbarco narrato molti capitoli più tardi, a Costantinopoli: Wu Ming gli regala una voce, dei gesti, dei volti dipinti di quel dolore così facile da capire, così ingiusto. Il protagonista del romanzo offre questo commento dopo essere stato testimone dell’arrivo nel porto di quegli esuli: «Avevo assistito a una scena antica. Avevo partecipato a una rappresentazione che proseguiva da secoli, da ben più di mille anni.».
Un invito all’accoglienza, alla tolleranza, anche nel pari dignità concesso a tutte le lingue del Mediterraneo: Altai è una piccola babele glottologia che ci ricorda il sacro di ogni idioma. Sacro nel bene ma a volte nel male, quando ogni lingua si appiglia al suo Libro e lo agita arrogante, lo pretende definitivo e migliore. È nella biblioteca di Giuseppe/Yossef Nasi che l’incontro tra i Grandi Testi è pacifico, c’è pure il famoso “Beneficio” (testo eretico protagonista di “Q”): solo nella cultura/coltura dei saperi possiamo trovare vera saggezza, che è l’unico ordito della tolleranza. Come dice Nasi a un ospite inglese incredulo sulla pacifica convivenza di religioni diverse sotto il cielo di Costantinopoli «Se rimarrete qui abbastanza a lungo, scoprirete che il segreto si chiama tolleranza». E etnodiversità: bellissima la scena in cui si narra la costruzione delle case a Costantinopoli per spiegare il concetto di tahammül, ovvero di «una tolleranza esperita, vissuta ogni giorno, con la consapevolezza che se essa venisse meno, la casa crollerebbe e si rimarrebbe senza riparo». Serve tahammül perché il carpentiere turco lavori con gli scalpellini armeni, greci e arabi: non basta “tollerarsi”, ma saper collaborare, creare qualcosa insieme che produce frutto.
Andare oltre significa amicizia: ce n’è così tanta in questo romanzo, molta più amicizia che famiglia, e molti rimpianti proprio fra chi non è in grado di rispettare i propri amici, chi li dimentica, chi non sa avere fiducia. E andando ancora oltre nei rapporti tra persone, c’è la ybris dell’uomo che non sa dare spazio e fiducia alla donna: diventa ancora più centrale in questo romanzo la relazione tra maschio e femmina, tra la visione maschile e quella femminile del mondo. Senza il dialogo, la fiducia, i mondi resteranno per sempre contrapposti e antagonisti; senza lo sguardo femminile la lotta diventa distruzione spietata, dalla quale non può nascere nulla se non macerie. La stessa lezione di Manituana giocata qui su un piano più intimo di eros, oltre l’agape del romanzo americano.
In questo senso, la strada emotivo-narrativa segnata da “Stella del mattino”, il romanzo solista di Wu Ming 4, ha decisamente tracciato un solco tonale per il collettivo, che in “Altai” compie un passo di introspezione più profonda introducendo elementi vicini alla psicanalisi e fa dell’evoluzione personale, della maturazione del protagonista, il fulcro dell’azione. Un romanzo molto più di formazione e crescita che “storico”, con i fatti che si piegano a restare quasi sullo sfondo, filtrati dall’occhio riflessivo del protagonista che in prima persona si declina in ogni sfaccettatura, paura e coraggio, odio e amore, debolezza e forza, pregiudizio e purezza di sguardo; e la sua salvezza interiore non è quella di essere un perfetto eroe epico ma al contrario quella di saper imparare dai suoi errori.
E ricorda Stella del Mattino anche il finale, in cui coloro a cui spetta di portare avanti il messaggio si allontanano insieme nel deserto. Perché il deserto, come risponde Lawrence D’Arabia a chi nell’omonimo colossal gli chiede perché lo ama «è pulito».