È online il mio nuovo contributo per La poesia e lo spirito, un racconto su un treno che si impaluda nella campagna e su come si possano girare le boe della vita, forse. Quasi una pagina di diario. Si chiama 7047.64. Devo e voglio ringraziare anche qui per i commenti nutrienti e emozionati che ho ricevuto alla sua anteprima su facebook.
7047.64
È il numero dei chilometri che separano Auckland, Nuova Zelanda, dall’Isola di Pasqua (o Rapa Nui), attualmente parte dello stato cileno. Settemila chilometri e sessantaquattro centimetri di sola acqua, acqua, acqua.
L’anno scorso ho preso un aereo che ha solcato l’Atlantico e mi ha portata in Cile; dopo una settimana un altro volo mi ha tenuta sospesa su quattromila chilometri di immenso blu per depositarmi in un aeroporto su un’isola sperduta in mezzo al nulla: la terra più vicina quella da dove ero partita. Un’isola a forma di boomerang il cui periplo è fattibile a piedi in un giorno. Da tenere sul palmo di una mano, con tutti i suoi misteri.
Ma non sono le statue, i moai neri che danno le spalle al mare, non sono gli altari su cui sono poggiate o su cui giacciono infrante, e neanche quel meteorite lucido la cui frequenza energetica ha mandato in cortocircuito la mia: non sono i misteri, i sacrifici orrendi, gli assassinî delle faide tribali, le lotte di potere tra aristoi e plebe, le grotte buie o l’oceano pieno di squali che l’anno scorso mi hanno risucchiata nell’emozione, a Rapa Nui.
È stato quell’enorme blu tutto intorno. Quella colata ribollente di mare infinito a cui l’isola resiste, silenziosa, sperando che ci sia solo pace e prosperità, vita a ritmi lenti. Quattromila chilometri per il primo ospedale, ma ritmi lenti, distacco. Accettazione. Isola-mento.
Un anno fa sono arrivata a Rapa Nui correndo. Come un intercity su una rotaia che voleva essere la mia vita: un uomo e un figlio, volevo solo questo. Poi sì, anche la scrittura, le mie varie attività creative, ma Unuomoeunfiglio era il nome della stazione a cui era diretto il mio treno, da vent’anni.
Ne avevo 44, l’anno scorso. Il treno invece si è fermato in mezzo alla campagna. Arenato di fronte all’evidenza che il ritardo procreativo non sarebbe stato mai più recuperabile. C’era solo da chiedere il rimborso del biglietto e ingoiare la delusione della corsa impaludata. C’era forse la necessità di cambiare direzione.
Desiderare altre cose.
Smettere di correre.
E all’Isola di Pasqua non puoi correre: c’è solo oceano blu intorno, onde alte quattro metri anche quando il mare è calmo. E rocce scurissime prese a ceffoni; puoi tuffarti oltre loro, prenderti in faccia il mare e affogare se vuoi.
Oppure puoi prendere l’isola come una boa.
La boa intorno alla quale si è arenato il tuo intercity nella corsa per il niente. Puoi scendere da quel treno, e girarci intorno, lentamente; e scegliere che se le statistiche hanno un senso, hai forse altri 44 anni davanti a te. Quelli della discesa iniziale, che poi diventa declino, sì: ma tuoi, e da vivere. Questa è stata l’Isola di Pasqua l’anno scorso: la boa intorno a cui voltare, prendendo le misure di alcune sconfitte. Ci è voluto un anno per girarle in cerchio, adesso cammino verso il ritorno con altra consapevolezza.
Ora, tra poco, riparto per l’emisfero sud: un’isola neozelandese abbracciata dall’oceano, distante 7047 chilometri e 64 centimetri da Rapa Nui; ma questa volta il mio aereo segue la direzione da occidente a oriente, sorvolando l’Asia invece che l’Atlantico.
Quest’anno arrivo da sinistra, dalla linea del cuore, sperando che il Pacifico mi dia ancora la sua buona spinta, che le onde puliscano, lasciando la forza della mia roccia.