Tonbruket e Ane Brun, energica raffinatezza scandinava all’Auditorium di Roma, 24 novembre 2013

Sold out domenica scorsa all’Auditorium Parco della Musica di Roma l’unica data italiana della norvegese Ane Brun con il quartetto svedese Tonbruket, la ventiduesima di un lungo tour europeo che li ha portati in tutte le città più importanti d’Europa.

 Amata da Peter Gabriel, che l’ha voluta al suo fianco sia in studio che live – così come da Ani Di Franco – Ane Brun è una star assoluta in Scandinavia. In dieci anni ha composto e pubblicato ben sei album in studio, realizzato due live, e suonato decine di concerti ovunque. Per il tour del 2013 ha scelto di essere supportata da una delle formazioni jazz più importanti della scena scandinava (e quindi, europea): Tonbruket, un quartetto nato per volontà di Dan Berglund, contrabbassista del trio jazz più premiato degli anni duemila per l’innovazione del jazz contemporaneo, l’Esbjörn Svensson Trio (E.S.T.).

Dopo la tragica morte accidentale del leader nel 2008, i restanti due musicisti (Berglund e il batterista Magnus Öström) hanno iniziato progetti solisti, ciascuno nella direzione più vicina alla propria ispirazione musicale più profonda. Berglund, da sempre l’anima più rock-metal del trio, ha virato verso una formazione con qualche spunto più progressive e rock anni ’70. Il significato del nome infatti, “Officina delle note”, ha in sé un senso materico, forgiante, martellato del suono, che resta però – come era per E.S.T. – sempre e comunque “jazz”. Il problema, che è poi l’aspetto interessante di questa formazione che ha aperto la serata con un suo magnifico concerto di oltre mezz’ora, è che ci si trova a corto di definizioni, quantomeno lineari. Quello che invece resta certo è che ci si confronta con dei musicisti a dir poco giganteschi, impressionanti per esecuzione, versatilità, approccio alla produzione dei suoni, a cominciare dalla quantità di strumenti suonati da entrambi i componenti della sezione melodica della formazione, con Johan Lindström – autore di quasi tutti i brani – alle chitarre (lap e pedal steel, spesso suonate con effetti slide alla Ry Cooder, chitarre acustiche e elettriche) e Martin Hederos che su una doppia tastiera passa da piano a organo, in ogni sua variante, con inserti di violino suonato sia pizzicato che con l’archetto, e persino la fisarmonica. La sezione ritmica era all’apparenza più semplice, con Andreas Werliin alla batteria, e il gigantesco Dan Berglund al contrabbasso, strumento con cui riesce a produrre qualsiasi tipo di sfumatura di suono, da quello di una chitarra elettrica metal (con un uso spregiudicato dell’archetto), a suoni più morbidi e profondi, dal bop al pop. Insomma sì: ero lì per sentire Tonbruket, più che Ane Brun, che pure avevo ascoltato e apprezzato.

Ma non è stato così, alla fine: dal vivo questa cantautrice è proprio un’altra cosa. Complice Tonbruket, certo, per forza: la coloritura, il carattere, la forza autorevole e la personalità quasi indomabile di ciascuno di questi musicisti fa salire le sue composizioni a un altro livello; ma se lei non avesse la statura, l’energia così esuberante e generosa che ha, verrebbe rimpicciolita da jazzisti di questa levatura. Al contrario, Tonbruket non fa altro che prestarsi al gioco di creazione di atmosfere raffinate, eleganti, ma anche più giocose e coinvolgenti, a vestire la sua voce di caramella rotonda di contralto, ricca di mille bagliori, anima pulita e sporca, cuore e passione. Per definirla non si può usare un unico riferimento canoro, ci sono tante sfaccettature, non solo o non tanto vocaliche quanto proprio emotive e interpretative. Quattro, su tutte: Nina Simone, Eva Cassidy, Björk, Beth Gibbons [Portishead], anche se leggo dai miei appunti scritti a caldo durante il concerto “come una Nina Hagen latina”; se l’ho scritto, sono certa che una ragione ci fosse, perché alla Hagen non pensavo da vent’anni.

Insomma, forse il segreto dell’alchimia tra lei e il gruppo è proprio questa somiglianza nel contenere generi così diversi, ispirazioni quasi opposte, e farle funzionare, fargli produrre qualcosa di lontano ma contiguo da tutto ciò da cui scaturiscono. Lei stessa è una giunonica Anita Ekberg con occhi da cerbiatta, vestita con abiti a maniche sciallate per dare morbidezza ai suoi gesti, ma allo stesso tempo così ragazzina e maschietta quando imbraccia la sua chitarra acustica e suona: non rinuncia a se stessa, a nessuna sua ambivalenza, porta tutto con sé confidando al pubblico le sue emozioni, la difficoltà nello scegliere la scaletta dei brani, come fossero figli, e persino un desiderio sospirato di cambiare completamente rotta, azzerare tutto e ripartire, per il prossimo album. Come stare seduti con un’amica a un bar, una cara amica che non vedevi da un pezzo, che fa fatica a contenere il fiume di cose che vuole raccontarti, con quel suo accento norvegese che affiora anche nel canto in ciascuna delle sue esse sbagliate. E sul palco vanno in scena sorrisi complici e gratitudine che Ane Brun dispensa a tutti, anche ai tecnici che la fanno sentire in colpa mentre lei sta lì che si beve un caffè intanto che loro montano e smontano, o alla sua corista Nina Kinert, con la quale duetta a volte con un piacevolissimo effetto First Aid Kit. Donna piena di coscienza ambientalista, con un messaggio chiaro da uno dei suoi pezzi migliori “it all starts with one”: ognuno deve fare la sua parte, cominciare dal piccolo. “Revolution from dreams”. Ricordiamocelo.

Foto concesse da Auditorium Parco della Musica, Roma

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