The Featured Artists Coalition e “Sweet Sixteen” di Birgit Vanderbeke

Di questi giorni la notizia su “The Independent”, ripresa da varie testate, che alcuni musicisti di rilievo (tra cui il miliardario Robbie Williams) hanno rilasciato una dichiarazione ufficiale secondo la quale non vogliono che vengano perseguite penalmente le persone che scaricano musica da internet a scopi personali, in opposizione alle loro case discografiche che invece cercano solo di alzare continuamente il tiro della repressione e della criminalizzazione degli scaricatori in rete. Forse si inizia a capire che chi scarica 100 non comprerebbe comunque mai 100 ma solo 4, non perché “meschino” o tirchio ma perché, semplicemente, non c’è la disponibilità economica di acquistare 100, ma solo il tempo per ascoltarlo. Ascoltare 100 e comprare 4 significa ascoltare molto per poi fare una scelta. Amare un gruppo non significa cmq solo comprare un cd ma molto altro: andare a un concerto, comprare una t-shirt, un’edizione speciale o limitata di qualcosa, oppure regalare qualcosa a qualcuno. Per quanto la fascia di mercato di acquisto adolescenziale sia sempre più importante come volumi, questo non significa che le risorse economiche siano infinite, ma solo che la loro volontà di spesa è forse più facilmente influenzabile di altre attraverso la pubblicità. La possibilità di scaricare musica da internet supplisce in effetti all’asfissia provocata da una martellante pubblicità di pop ripetitivo che vorrebbe poche cose a grandi volumi.
Perfettamente in sintonia con questa consapevolezza e ribellione ai propri padroni espressa da The Featured Artists Coalition quello che si suole definire “un piccolo libro” di un’autrice tedesca (ex DDR), Birgit Vanderbeke, di cui è stato pubblicato in Italia un finto saggio “Sweet Sixteen” dal minuscolo editore Del Vecchio, edizioni ancora davvero minuscole che però, in questo caso, giocano bene le proprie carte pubblicando un volume che induce davvero a riflessione. Il protagonista, un sociologo, descrive un fenomeno (per ora inesistente) di “fuga da casa” da parte di una serie di ragazzi nel giorno del loro sedicesimo compleanno. Per tutti una fuga progettata in sordina ma ben pianificata, per riunirsi ipoteticamente ad altri evasi in qualche squat di Berlino. Evasione da che? Dalla pressione pubblicitaria, dal consuming system, da valori antichi che si sono sbrindellati sotto il rullo compressore della storia, dalla realtà non abbastanza virtuale. In opposizione, il loro mondo web di cui i genitori non sanno e non capiscono nulla, che demonizzano per paura di perdita di controllo. Allora meglio la virtualità gioco-realtà giapponese, i manga e altri rituali di giovane pseudo socialità in rete. Un romanzo spiazzante e fastidioso, che asciuga il mio rimpianto di non avere figli. Ma al di là della poca plausibilità del fatto che un così largo numero di ragazzini possa davvero sparire nel nulla, sia pure a Berlino, è davvero affascinante questa ipotesi di rigetto di modelli, e la necessità totalizzante di rivendicare di essere diversi e poter fare delle scelte non condizionate da nessuno. Pensiamoci.