Penso che ce la faccio

Quando rileggo questo pezzo sorrido sempre, in effetti ha una sua comicità che potrebbe essere sfruttata in un monologo. Me l’aveva chiesto Lanfranco Caminiti, per Carta, il numero pre-elettorale che uscì ad aprile 2006 dal titolo “Una domenica d’aprile” dove si parlava di quello che sognavamo da un nuovo governo del centrosinistra. Gesù.

In effetti cmq, questo pezzo è al 50% autobiografico. Nel periodo in cui l’ho scritto non arrivavo a fine mese con lo stipendio. Quindi dato che per arrotondare mi sfrangevo a tradurre in inglese un saggio sociologico, mi sono facilmente immedesimata nel ruolo della tuttofare precaria. Precaria no, ma lavoro mille ore al giorno sì.

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PENSO CHE CE LA FACCIO

Sì certo, in fondo che ore sono, le 23 e 12, domenica sera. Che mi resta da fare? Solo la traduzione del quinto capitolo dello studio sociologico, sono solo 12 pagine, che poi se le guardi bene, a pagina 8 c’è una tabella che sì, è scritta piccola, però pagina 12 sono solo 8 righe quindi dai, come se fossero solo 11 pagine. Quindi sarebbero 11 ore, però vabbè, di giorno, che ci sono le telefonate, le email, i blog, la radio, magari ora la spengo, insomma i clacson delle macchine. Vuoi mettere adesso di notte? Non ci metto più di mezz’ora a pagina quindi dai, in 5 ore ho fatto e domani consegno per le dieci, come da contratto. Contratto, vabbè, parole grosse, contratto niente, una stretta di mano, cioè, mano per email, uno scambio di file, 5 euro a cartella.
Porca misera il pezzo per Carta!! Quello sull’Italia che sognamo! Il sogno sarebbe andare a letto adesso, subito, che ho anche mal di testa. Ma se andassi a letto subito subito e mi mettessi la sveglia alle 5? Quanta gente si alza alle 5? Perché, la mia amica precaria dell’azienda degli autobus allora? Lei alle 5 si fa il primo caffè coi colleghi, altro che piangersi addosso per 12, cioè 11 pagine di traduzione da consegnare. È che dovevo dire di no a quello dei cani, ma se gli davo buca pure oggi se ne trovava un’altra, me lo sento. Quello di portare fuori i cani certo, sono solo 50 euro al mese, ma intanto mi ci faccio la connessione a internet, ché comunque mi serve. E poi se non portassi fuori i cani mi verrebbe un culo che farei provincia, tutto il giorno incollata a questo piccì.
Il pezzo per Carta!! Oddio che gli scrivo? L’Italia che sogno, la domenica sera, davanti al piccì, dopo 12 ore di traduzione sabato e 9 oggi, poi fuori coi cani, poi baby-sitter da mia sorella, che va al cinema solo per pagare tre ore a me e farmi trovare le lasagne pronte, angelo che è.
È che sarei pure laureata, in lingue, ma a quelli del call-center non gliel’ho detto sennò manco mi prendevano ché poi vabbè, dopo sei mesi cacciata fuori, non m’hanno rinnovato il contratto. Lo sapevo. “Parla davvero tre lingue signorina? Ma cosa ha fatto dopo il diploma?” “Ho vissuto un po’ all’estero sa, Inghilterra, Francia, Spagna, sì, insomma, per imparare le lingue”. Invece ero a Roma, all’università, ma io zitta, ho viaggiato, sono una strafica, sennò che ci facevo al call-center?
Penso che ce la faccio però, dai che la faccio, solo 11 pagine, con la tabella. Poi c’ho preso la mano ormai con ‘sta traduzione, sono sicura che mezz’ora a pagina al massimo e ho fatto. Niente telefono, niente email, vado sparata come un chiodo. Si ma il pezzo per Carta? Magari prima di andare a letto, un attimo, mi metto lì, butto giù un paio di cartelle, magari mi ispira la ricerca sociologica sul precariato in Europa. Ma io sono sociologica? A qualcuno gli interesso come dato statistico, come oggetto di analisi? Quando studiavo ero tutta contenta di non essere in quel numero enorme di studenti che abbandonavano entro i primi due anni. Mi guardavo il diagramma e mi dicevo: tu invece ce la fai signorina, fai gli esami come un treno. Fino alla laurea. Poi mi sono sentita in effetti come fossi in piedi sulla banchina di quelle stazioncine di provincia per cui passano gli intercity a tutta velocità e ti arruffano la faccia e i capelli fischiando, mi sentivo con il mio diploma di laurea in mano e il vento di risucchio del treno che me lo stropicciava tutta, il treno che passava di corsa senza fermarsi, senza portarmi da nessuna parte.
Allora il call-center a mordersi la lingua per la mia piccola laurea inutile, le traduzioni nei buchi, le scadenze, i 5 euri pidocchiosi a pagina, i cani al parco, belli cani, per la connessione a internet e un paio di pacchetti di sigarette, mezza ricarica del cellulare, un pacchetto di gomme e un francobollo posta prioritaria per gli auguri a Pilar, che mi vuole a Madrid.
Ma ci vado di sicuro, chiudo questa traduzione e intanto pago la mia quota d’affitto. Sono sicura che posso ottimizzare ancora, magari chiedo se mi riprendono al pub il venerdì e il sabato, e quei soldi giuro non li tocco, non me li sputtano con le bollette, sono i miei soldi per Madrid. Ma adesso basta, sono le zero punto zero due, mancano un certo numero di ore alla mia consegna, è il cervello che va in folle, ‘sto stronzo. Ma penso che ce la faccio, dai, ce la faccio. Ma che ci scrivo sul pezzo per Carta?