La luce sul Vajont

Dopo il mio pezzo su Dolomiti Contemporanee, ho sentito il desiderio di scrivere ancora per questo evento così speciale e coinvolgente emotivamente. Esce oggi su l'Unità, e tra qualche giorno per Bcomeblog, in una versione leggermente diversa. Intanto L'Unità:

Un raggio di luce sul Vajont

Sono quasi cinquanta anni dall’anniversario dell’olocausto del Vajont: il 9 ottobre 1963 un’immane e annunciata (a gran voce sulle pagine de L’Unità dall’indimenticabile Tina Merlin) frana del Monte Toc all’interno del bacino artificiale della diga del Vajont, produce un colosso di acqua e detriti che spazza via la vita di quasi duemila persone, e delle loro case, travolgendole a una velocità di cento chilometri orari per settanta metri di altezza. Una forza talmente devastante che nessuno dei cadaveri ritrovati ha indosso alcun capo di abbigliamento: la potenza dell’onda ha rimosso e divorato ogni cosa sul suo cammino.

Ma oggi, mesi prima di questo piangente anniversario che sarà ricordato con tutta la necessaria solennità, oggi che non è anniversario di nulla, alle 18.30, da Casso, potremo assistere a un segnale di vita e di luce: un fascio potente, al crepuscolo, illuminerà quel muro di cemento intatto e inutile; statico, morto, silente.
È molto difficile lambire il dolore di chi custodisce collettivamente un evento così madornale e soverchio. Anche dopo 50 anni resta sempre una comprensibile gelosia del lutto, che rende dolorosa qualsiasi narrazione “esterna”. Forse l’unico modo di entrare senza far male, disarmati, è quello di usare l’arte per comunicare, per incidere senza scalfire, per suturare i tagli: è probabilmente lì il senso di questa istallazione luminosa dell’artista Stefano Cagol voluta da Dolomiti Contemporanee per il Nuovo Spazio espositivo di Casso, di cui ci siamo già occupati qui. Il titolo di questo progetto è “La Fine del Confine/The End of The Border: the Start” e porta in sé tutto il desiderio non di nascondere un passato o obliarlo, ma di dargli una vita nuova, una possibilità di manifestare la propria essenza con volto contemporaneo, creativo nel senso più etimologico del creare, l’arte per un ponte di luce. A maggior ragione in questo caso, dove questo fascio luminoso di 15 chilometri non resterà congelato lì, contro la diga, ma continuerà un percorso: prima andando domani a colpire a Cortina d'Ampezzo la Parete Sud della Tofana di Rozes, un icona montana patrimonio Unesco, ma continuando oltre: la luce accesa a Casso come una fiaccola olimpica di speranza attraverserà tutta l’Europa per approdare cinquemila chilometri più a nord, alla Triennale di Barents, che si terrà a Kirkenes, città norvegese del Circolo Polare Artico.

Chiediamo a Gianluca D’Incà Levis, direttore di Dolomiti Contemporanee, qual è stata la genesi di questo evento culturale, e con quale intento l’ha scelta.
Alcuni degli elementi principali del “movente culturale” di The End of the Border, sono già ben evidenziati nella tua introduzione. Vorrei fornire qualche altro spunto: da alcuni mesi, lavoriamo nel Nuovo Spazio di Casso, un centro espositivo, che occupa l’edificio di una ex scuola, che fu danneggiata, e chiusa, proprio dalla Tragedia del Vajont, nel 1963.
L’idea di riaprire questo Spazio, trasformandolo, non accettandone la chiusura (perenne), è in fondo la stessa che ci ha portato a lavorare con Stefano Cagol su The End of the Border.
Il raggio di luce sulla diga offre una metafora, semplice, diretta, forte, che però non ha nulla di sguaiato, ed è silenziosa. La luce è la vita. E la luce della vita ha molto senso in un luogo segnato dalla morte.
La morte non va accettata, non ne va accettato il dominio, il governo, intendo. In questo senso, riaprire l’ex scuola per farne un centro d’azione vitale (cioè d’arte), e voler creare un’immagine di luce che superi la passività di fronte alla morte, è la stessa cosa.
Vorrei essere ben inteso, su questo punto. La nostra convinzione è che a nessun genere d’inerzia (morte) vada concesso il diritto di divorare la vita. La storia del Vajont è terribile. È la storia personale di alcuni uomini, la storia del dolore privato delle persone che subirono quel fatto. In queste storie personali, noi non entriamo. Ma questa storia è anche una storia totalmente pubblica, che appartiene all’uomo, all’umanità intera. Rispetto alla dimensione pubblica di quell’evento terribile, proporre un’opera pubblica, cioè un modello di azione condivisa, è plausibile, e giusto. Io non credo affatto che questi luoghi debbano rimanere, per sempre, i luoghi della Tragedia, della sola Tragedia. Ci dev’essere la possibilità di un’identità contemporanea, per questi luoghi. C’è un’opzione di libertà. La morte non potrà abitarli, incontrastata, per sempre, questi luoghi. Essi possono, direi debbono, poter essere altro da quello. Senza che ciò voglia dire, naturalmente, dimenticare. Fare la luce non equivale in alcun modo a dimenticare. Nessuno che abbia senno dimentica. E nessuno che abbia senno e coraggio cessa di vivere perché la Tragedia venne. L’uomo vive, e deve voler vivere.